Mad Season

Above

1995 (Columbia)
grunge

Classicamente si considera come età d’oro del grunge il quadriennio che va dal 1991 al 1995, ossia gli anni in cui numerosi dischi registrati da band appartenenti alla leggendaria scena di Seattle, con il loro mix incontenibile di rabbia giovane e riff dirompenti, fecero breccia nel cuore degli adolescenti e nelle classifiche di tutto il mondo. Ancor prima e ancor più che da una comune idea di suono, i musicisti uniti sotto l’ombrello critico del Seattle Sound erano legati tra loro da un forte senso di comunità, di tragedia e da sentimenti di amicizia e lealtà. Non è un caso infatti che il grunge sia uno dei generi musicali più ricchi di side-project, tour a braccetto e collaborazioni.
Facendo una piccola forzatura, si potrebbero indicare i due dischi unici di due super-gruppi della scena come i lavori che hanno dato inizio e fine alla suddetta golden age. Il primo è chiaramente il disco omonimo dei Temple Of The Dog, datato 1991, il secondo è invece “Above” dei Mad Season, uscito il 14 marzo del 1995.
Per forza di cose, i Temple Of The Dog erano una super-band inconsapevole di esserlo, i cui membri ancora non avevano assunto lo status di star, non avendo i gruppi da cui provenivano (Soundgarden e Pearl Jam) ancora registrato i loro lavori più importanti. Al contrario, i Mad Season, con membri provenienti da Pearl Jam, Screaming Trees e Alice In Chains, che nel 1994 erano già assurti agli onori della cronaca globale col bestsellerDirt” (Columbia, 1992), erano una super-band a tutti gli effetti.
A unire queste due brevi ma significative epopee troviamo però proprio il senso di comunità e prossimità della scena di Seattle. I Temple Of The Dog si erano stretti attorno a Chris Cornell per dare un suono al suo accorato saluto all’amico fraterno Andy Wood, uno dei padri fondatori del grunge, mentre i Mad Season scelsero il proprio vocalist, Layne Staley, per salvarlo dall’abuso di sostanze stupefacenti.

 

I Mad Season nascono nel 1994 dall’incontro tra Mike McCready e John Baker Saunders tra le mura della Hazelden Clinic in Minnesota. Il chitarrista dei Pearl Jam era finito in clinica per disintossicarsi da alcol e droghe di cui aveva fortemente abusato durante la produzione di “Vitalogy” (Epic, 1994), terzo disco della sua formazione madre. McCready condivise così la permanenza nella struttura con il futuro bassista dei Walkabouts, lì pressappoco per le stesse ragioni.
Le chiacchierate a base di musica e vita tra i due furono così fruttuose che una volta tornati a Seattle i musicisti non persero tempo e formarono una band per dare vita a due brani che avevano già in mente, “Wake Up” e “River Of Deceit”. Per occupare il seggiolino dietro le pelli, McCready e Baker Saunders pensarono a Barrett Martin, batterista degli Screaming Trees, che prese volentieri parte alla formazione, allora denominata The Gacy Bunch.
A quel punto mancava soltanto una voce. Ancora una volta, la scelta fu dettata non tanto da esigenze stilistiche o compositive, quanto dal senso di comunità che univa i musicisti della Seattle anni 90. McCready imbarcò infatti Staley perché credeva che partecipare a un progetto formato interamente da musicisti sobri lo avrebbe aiutato a fronteggiare la dipendenza da eroina. I fantasmi che tormentavano Staley e Baker Saunders, unito al cantante degli Alice In Chains anche dal tragico destino che li attendeva, erano però troppo grandi e qualche anno dopo li avrebbero comunque sopraffatti. Ma questa è un’altra storia.

Dopo alcune fortunate esibizioni a nome The Gacy Bunch, nome derivato dal celebre serial killer John Wayne Gacy e la sitcom “The Brady Bunch”, tra cui quella celebre del 12 ottobre 1994 al Crocodile Cafe di Seattle, la band decise di cambiare nome in Mad Season. La denominazione scelta da McCready si riferisce al periodo dell’anno in cui i funghi allucinogeni raggiungono la massima fioritura, è però un chiaro richiamo proprio all’epoca d’oro del grunge, segnata com’è stata da eccessi nel lifestyle dei suoi protagonisti e nell’abuso quasi generale che questi facevano di sostanze stupefacenti di ogni sorta.
Con il nome nuovo di zecca, i Mad Season entrarono nei Bad Animal Studio di Seattle e alla fine dell’anno dettero così vita al primo e unico disco, “Above”, che sarebbe stato pubblicato a inizio 1995 dalla Columbia. Ad assisterli nel ruolo di produttore e ingegnere del suono ci fu Brett Eliason, vecchia conoscenza di McCready e già collaboratore dei Pearl Jam, per dare forma sonora a un album che viene sostanzialmente realizzato in una settimana, una vera e propria meteora che tale rimarrà.
A rendere ancora più preziosa l’opera vi è poi l’intervento di Mark Lanegan, compagno di Barrett Martin negli Screaming Trees e tra i dei ex-machina dell’intera scena, che non soltanto cantò insieme a Layne in “I’m Above” e “Long Gone Day”, ma aiutò quest’ultimo nella stesura di alcuni struggenti testi. Lanegan era uno dei suoi migliori amici – come avrebbe dichiarato anni dopo: “Kurt was like a little brother, Layne was like a twin” – tra loro vi era un forte legame affettivo segnato dalla convivenza con le medesime dipendenze.

 

Pur non mancando di momenti chitarristici tosti e di ritmiche rutilanti, “Above” è un disco introspettivo, con una miscela di blues e hard rock in grado anche di planare con la psichedelia. A dominare è quindi una decompressione sonora generale, in cui parti strumentali più scheletriche e dilatate creano respiro per la voce e le parole, rispetto soprattutto alla maggioranza dei lavori dei Pearl Jam, degli Screaming Trees e degli Alice In Chains, questi ultimi in una fase della carriera in cui le tendenze metal di “Dirt” erano state mitigate dal blues acustico di “Jar Of Flies” (Columbia, 1994).
Grazie all’essenzialità del sound dei Mad Season, la voce metallica e vibrante di Staley assume connotati più scuri e profondi che negli Alice In Chains si lambivano nelle ballad e nei momenti più raccolti come “Nutshell”. Inoltre, a differenza delle produzioni della band madre, la voce di Staley è raramente doppiata col proprio unisono – accade in “Lifeless Dead” e “I Don’t Know Anything”, che vedremo infatti essere più vicine a quelle sonorità – spogliandosi spesso dei tratti più sinistri e drammatici. La sua performance in “Above” si potrebbe quindi definire nuda, anche nel lasciare affiorare una minima speranza (“River Of Deceit”). È emblematico il fatto che la porta di ingresso all’album, “Wake Up”, sia il brano che diventerà il più noto dei Mad Season, un capolavoro immancabile in qualsiasi storia, antologia o compilation si voglia creare sul Seattle sound anni 90:

Wake up, young man, it’s time to wake up
Your love affair has got to go
For ten long years
For ten long years, the leaves to rake up
Slow suicide's no way to go
Uh

In punta di piedi il basso detta le linee armoniche e melodiche insieme alla marimba, sostenuto da qualche piatto, dal bordo del rullante e dallo strumming della chitarra colorato dal phaser, a spargere vibrazioni metalliche nell’aria durante le strofe. Quando tutto sembra ribaltato – la sezione ritmica sopra le chitarre, i suoni puliti sopra le distorsioni, la dilatazione sulla frenesia – la voce di Staley elettrifica il brano, conducendolo con un colpo di frusta improvviso dentro un ritornello nerboruto, in cui scompaiono le parole per lasciare spazio a struggenti accenti elettrici e assoli blues di McCready, sciogliendosi infine, ancora una volta come in una spirale, nella tessitura sonora iniziale. Layne parla della sua dipendenza da eroina come di una relazione d’amore clandestina (“Wake Up… Wake Up…”), ma nella metafora si annida tutta la consapevolezza della direzione verso cui stava andando. Il sostegno dato dalla band alla fragilità delle confessioni di Staley si svela in tutta la sua grandezza già da questa opener, la cui equazione magica risulterà irripetibile.

È ben più violenta la successiva “X-Ray Mind” che, tempestosa sin dall’avvio a base di drumming tribale e riff di chitarra che tagliano l’aria, compie un assalto grunge al fulmicotone molto simile a quelli degli Alice In Chains, con Staley che sembra invocare aiuto contro l’invadenza dei media nella sua vita privata. “Lifeless Death” e “I Don’t Know Anything” sono altrettanto dure e altrettanto assonanti alle bordate sparate in “Facelift” (Columbia, 1990) e “Dirt”. La prima è condita da “yeah” gridati a squarciagola e interventi di chitarra stridenti, mentre la seconda avanza incendiaria e inesorabile come una colata di lava in cui la voce ripete il titolo in un mantra ossessivo e ottenebrante, a rispecchiare la snervante impossibilità dell’uomo di controllare la sua vita.
Uno dei punti di forza del disco è infatti la dinamica creata tra i diversi pezzi nella scaletta, che vanno a costituire un vero e proprio percorso timbrico ed emozionale. Tra le sferzate elettriche e percussive sopracitate si trovano soluzioni più briose, prima fra tutte il blues agrodolce di “River Of Deceit”, l’unico singolo estratto da “Above”, ma anche la jam session bluesy di “Artificial Red”, una pausa che ribolle di pensieri (“Is this the way I spend my days/ In recovery of a fatal disease?”). “River Of Deceit” costituisce una vera e propria seduta di analisi e tentata terapia, che manifesta però, nelle parole del leader degli Alice in Chains, l’impossibilità di cambiare il corso delle cose:

My pain is self-chosen
At least, so the prophet says
I could either burn
Or cut off my pride and buy some time
A head full of lies is the weight, tied to my waist
The river of deceit pulls down, oh oh
The only direction we flow is down

Segue un altro dei momenti più significativi di “Above”, la canzone dalla quale è tratto il suo titolo “I’m Above”. In realtà enigmatico, il brano dovrebbe raccontare la relazione tumultuosa tra Staley e la sua ex Demri Parrott, ritratta in un bacio appassionato con il cantante sull’iconica copertina del disco, realizzata peraltro da lui stesso. “I’m Above” si apre in maniera netta e dura, con un riff di chitarra granitico e una ritmica solida, per passare al clean strumming delle strofe che accompagna il cantato all’unisono da Staley e Lanegan – con quest’ultimo a offrire appoggio con i suoi toni baritonali alle angosce dell’amico – al ritorno dell’intro iniziale in forma di pre-chorus e all’audace successione melodico-armonica del chorus à-la Stone Temple Pilots. Ad ammorbidire la transizione tra le parti troviamo a metà un intervento di chitarra acustica di McCready, che rende ancora più vibrante una canzone dalla già elevata portata emozionale:

How is it you’re feeling so uneasy?
How is it that I feel fine?
Life reveals what is dealt through seasons
Circle comes around each time

 

I’m above
Over you I'm standing above
Claiming unconditional love
Above

Nell’altro brano che registra la presenza di Mark Lanegan, “Long Gone Day”, assistiamo a uno scambio di ruolo tra i due vocalist, con il leader degli Screaming Trees a prendere almeno inizialmente il comando, un po’ come succede tra Chris Cornell ed Eddie Vedder in “Temple Of The Dog” per la durata di “Hunger Strike”. Assai diversa dal resto delle canzoni di “Above”, “Long Gone Day” rinuncia all’elettricità tipica del grunge, si veste di percussioni caracollanti degne di Tom Waits e presenta assoli di sax invece che di chitarra, suonando come uno dei brani che riecheggeranno di più nelle produzioni soliste di Lanegan. Costituisce il primo segmento della tripletta che chiude “Above”, cui seguono la sciamanica “November Hotel”, una sessione strumentale strutturata sul groove dei tamburi e sulle impennate psichedeliche delle chitarre elettriche, e l’introversa “All Alone”, in cui sembrano fatalmente inconciliabili la ritrovata quiete degli strumentisti nella ripetizione – la chitarra sembra girare intorno a quello che poi diventerà il fraseggio principale di “Given To Fly” – con la voce celata dietro al riverbero in quella che, a posteriori, potremmo leggere come un’ammissione di resa da parte di Staley: “We’re All Alone”.

 

“Above” si staglia in maniera unica nella storia del rock, non solo quindi del grunge e dell’alternative rock ai quali è sempre stato ricondotto. È uno dei più felici esiti di quella stagione culturale e dell’incontro speciale tra musicisti in stato di grazia e in piena affinità elettiva e affettiva. A riprova di ciò, resta uno dei pochi documenti della rada attività live dei Mad Season, “Live At The Moore”, allo storico Moore Theater di downtown Seattle, le cui riprese per anni hanno girato in Rete prima di trovare il loro posto nella reissue deluxe di “Above”, comprensiva dell’album, degli outtake e delle registrazioni del concerto.

16/07/2023

Tracklist

  1. Wake Up
  2. X-Ray Mind
  3. River of Deceit
  4. I'm Above
  5. Staley"Artificial Red
  6. Lifeless Dead
  7. I Don't Know Anything
  8. Long Gone Day
  9. November Hotel
  10. All Alone