Gli esperti di moda
Si grattano la gola
Ed è giusto oppure no
Capirne il senso etico?
Ingoio un rospo
(da “Logorrea”)
Nel 2003 i Verdena erano già molto più di una next big thing. I primi due album degli ancor giovanissimi bergamaschi avevano fatto il botto: l’omonimo esordio, prodotto da Giorgio Canali, li aveva imposti come idoli di tutti i teenager rimasti troppo presto orfani di Cobain; il successivo “Solo un grande sasso”, prodotto da Manuel Agnelli, approdava a ridosso di una psichedelia che individuava nei Motorpsycho il punto di riferimento più evidente. Vera e propria macchina da guerra nella dimensione live, i fratelli Ferrari e Roberta Sammarelli si trovavano a dover studiare attentamente le mosse successive, per puntare verso nuovi ambiziosi traguardi evitando di ripetersi.
Per “Il suicidio dei samurai”, concepito in grande isolamento nell’ex-pollaio casalingo riconvertito in studio di registrazione rurale, il trio recluta un quarto elemento, il tastierista Fidel Fogaroli. L’iper-perfezionismo di Alberto (per la prima volta i Verdena optano per l’autoproduzione) conduce a un risultato in grado di stupire persino i più scettici: le undici tracce mettono al bando sia le tendenze bulimiche di “Solo un grande sasso”, sia gli aspetti sin troppo teen dell’esordio. Ferrari dimostra un’accresciuta cura nella stesura dei testi, visionari, usando il bilancino nella creazione di piccoli slogan generazionali, per mezzo di poche parole, solo quelle strettamente necessarie. Dal punto di vista musicale raggiunge un ragguardevole compromesso, eliminando ogni lungaggine di troppo (torneranno nei dischi seguenti, a partire da “Requiem”) per puntare di nuovo su un formato canzone "radiofonico", come ai tempi di “Viba” e “Valvonauta”.
Dipingimi
Distorto come un angelo anormale
Che cade
Offendimi
Se odiare è un crimine il prezzo è uguale
E fa male
(da “Luna”)
Le parole, dicevamo, ci lavora di fino Alberto, puntando molto sul loro suono, partendo da un provvisorio inglese utilizzato in sala prove per poi trasporre il tutto in un italiano in grado di dimostrare come si possa cantare alt-rock nella nostra lingua senza apparire ridicoli o forzati. Sceglie frasi che a un ascolto distratto potrebbero apparire scollegate, prive di un naturale senso logico, ma che in realtà si schiudono su concetti tutt’altro che casuali, per lo più nonsense, ma ricche di disturbanti immagini, così potenti da riuscire a materializzarsi davanti agli occhi dell’ascoltatore come fotogrammi di una pellicola pulp o di un B-movie a tema horror. Angeli anormali, dei che sanguinano, aria che brucia, cielo-fan su cui stendersi, topi blu e tante altre impenetrabili figure allegoriche popolano lo spazio, senza sentir minimamente il bisogno di essere a tutti i costi comprese.
Come ben rivelato dal titolo (riferimento a “Suicide Samurai”, brano dei Fecal Matter, la prima band di Kurt Cobain), le influenze del disco sono ben radicate fra i solchi dell’alternative rock d’oltreoceano, in particolare nel grunge meno classic-oriented e nelle derive noise dei Sonic Youth. L’incipit è imperioso: granitica e insofferente, “Logorrea (esperti all’opera)” anticipa il mood dell’intero album, con quella ritmica possente, le tastiere che aggiungono un tocco di fantasmagoria e le parole decise. Un attacco frontale a chi non credeva in loro? Introdotta da un romantico arpeggio di chitarra, “Luna” è destinata da subito a divenire un’intramontabile fan favourite, un’istantanea dell’essenza della band: giro di basso borbottante, drumming incalzante e quelle gran chitarre dalle quali Alberto leva la sua tragica conclusione. “Niente conta e crolla, crolla”, urlata a squarciagola, fino a far sfilacciare le parole.
Mina, ho perso il controllo
E dopo tutto non avrò che pioggia
Che cade con me
E getto le ultime molecole contro di te
(da “Mina”)
Su “Mina”, Alberto sperimenta un cantato più scivoloso, vagamente sensuale, lasciandosi poi penetrare dalla furia di un violento breakdown psicologico tardo adolescenziale. Appena un attimo dopo che l’incendio si è placato, un flauto sintetico riprende la melodia, la stempera, la ammansisce, trasformandola in rassegnata quiete. Sensuale è anche “Balanite”, ancor più rilasciata e lasciva, un testo sulla libidine perduta, che striscia tra le chitarre bollenti e avvolgenti, arricciandosi nell’iconico ritornello che ripete ad libitum “Prima o poi!”. “Phantastica” è invece la perfetta indie hit di turno, in modalità alt-pop, dove la chitarra opta per un assolo melodico piuttosto che per un assalto frontale, ricordando gli Smashing Pumpkins degli esordi.
“Elefante” è un ariete che spacca il disco in due. Le parole di Alberto vanno in caduta libera, il giro di basso è supersonico e la batteria mima un treno in corsa senza freni, che tra polvere e scintille abbatte tutto ciò che incontra. Assoli al fulmicotone, la chitarra che barrisce ricordando certi dialoghi sonici fra Lee Ranaldo e Thurston Moore. “Far Fisa” rappresenta la pausa prima dell’efferato tris finale, un crescendo infernale che si materializza nell’avalanche psichedelica di “17 tir nel cortile”, forse un retaggio dell’album precedente, nei riff battaglieri miscelati alla nostalgia autunnale che permea “40 secondi di niente”, e nell’angoscia palpabile che filtra dalla clamorosa title track, innervata da repentini raptus di delirio sonico e da una chiusura dai tratti inquietanti.
Correggimi
Se tutto questo è debole
Quello che fai non crea più attenzione
Non coinvolge!
(da “Phantastica”)
Ma a metà scaletta si staglia il vero plus del disco, la monumentale “Glamodrama”, titolo ispirato al “Glamorama” dello scrittore postmodernista Bret Easton Ellis, che rimpingua il già folto stuolo di riferimenti alla pop culture americana, qui presenti sin dalla copertina gialla nella quale campeggiano una figura femminile che ricorda Marilyn e un elefantino di chiara ispirazione warholiana. Il brano, in realtà una mini-suite dalla durata comunque controllata, parte lento e sinuoso per poi deflagrare in due epici ritornelli e affidarsi nella seconda metà a un ansiogeno crescendo di rara intensità, sviluppato per successive stratificazioni. Insieme a “Luna” resterà per sempre fra i brani più amati non solo del repertorio dei Verdena, ma del rock indipendente italiano tutto.
Grazie a un virtuoso mix di sperimentazione e attitudine “pop”, “Il suicido dei samurai” consentirà ai Verdena di consolidare sia la propria fama presso un pubblico sempre più numeroso, sia il consenso della critica, che continuerà a premiarli senza interruzioni, anche se - nonostante l’indiscutibile ulteriore maturazione successiva – la band non sarebbe mai più arrivata alla pancia della gioventù italiana come in questo caso. L’approccio viscerale, brutale, a tratti feroce, i travolgenti riff che tramortiscono l’ascoltatore, la sezione ritmica implacabile condurranno il trio a completare – assieme ai già affermati e più “anziani” Marlene Kuntz e Afterhours - l’ideale intoccabile “Santissima Trinità” posta al centro della scena “alternativa” nazionale di quegli anni. Evento auspicabile, ma di certo ancora opinabile ai tempi dei primi due album. “Il suicidio dei samurai” fu portato a lungo in tour, date che esaltarono la devastante carica elettrica di quelle canzoni. Come accaduto in passato, la band continuò in parallelo a pubblicare Ep utili a tirar fuori dal cassetto tutti i frutti dell’inarrestabile vena creativa del periodo. Fra le numerose cover e i tanti inediti, va recuperato almeno “Le tue ossa nell’altitudine”, episodio che non avrebbe certo sfigurato nella tracklist de “Il suicidio”.
A volte
Lei cambia pelle
E lo confessa a me
Continuamente
Lei esplora l’ordine
Diffuso da me
Ed ora è chiaro che
La carie più viva sei solo tu
Demone!
Demone!
Come cadi bene
Un bolide
Diamine!
L’ansia divora
(da “Glamodrama”)
04/08/2019