Etichetta: "Vogliamo ridefinire la musica pop inglese a nostra immagine [...], noi non assomigliamo assolutamente a nessuno e la verità è che abbiamo fatto un disco che muoio dalla voglia di far ascoltare alla gente. Vogliamo uscire fuori e suonarlo, ADESSO. Mi sento così sicuro di questo disco che tutti quelli a cui non piacerà staranno mentendo". Parola di Greg Gilbert, cantante/autore e chitarrista dei Delays, quartetto indie-pop di Southampton, giunto alla seconda prova discografica.
Beh, caro Greg, scusa lo scetticismo, ma la tua ambiziosa sparata in stile Noel Gallagher non incontra la sensibilità di chi la musica la ama e la rispetta per davvero, emozionandosi fino alle lacrime o criticandola aspramente se ce n'è bisogno. Chiamaci pure bugiardi, ma il vostro album non ci convince, né tantomeno ci fa saltare dalla sedia in adorazione, in estasi di fronte a un improbabile "rinascimento Brit firmato Delays". Il disco che hai inciso in tre mesi ai Real World di Peter Gabriel, in compagnia di tuo fratello Aaron (tastiere), Rowley e Colin Fox (batteria e basso) è un onesto recupero di certe atmosfere synth-pop e colonne sonore anni 80 (a-ha, Cocteau Twins, Crowded House, più echi di Cure e Pet Shop Boys), radio-friendly, variegato, sfacciatamente orecchiabile, leggero, sbarazzino. Cibo per l'anima se svenite per Keane o James Blunt, ordinaria (e presuntuosa) amministrazione pop in caso contrario. Nulla di più, nulla di meno.
Il discorso rispetto al fortunato debutto "Faded Seaside Glamour", uscito due anni fa, è certamente cambiato, così come la vernice che dipinge questi undici nuovi brani: "You See Colours" è infatti più coeso e diretto, più duro, meglio strutturato in termini di riff e armonie vocali; i singoli strumentisti (le tastiere soprattutto, usate e abusate lungo i quaranta minuti) viaggiano finalmente laddove l'arma segreta dei Delays continuava a risiedere nel cantato di Gilbert, sorta di Lee Mavers effeminato, pericolosa cintura nera di falsetto come non se ne sentivano dai tempi di Mark Greaney dei JJ72 o (udite! udite!) del desaparecido Ké di "Strange World".
Il che, in un 2006 infatuato delle nenie spastiche dei Clap Your Hands Say Yeah, sarebbe anche un peccato perdonabile, non fosse che il nostro buon Greg "ci fa" platealmente, credendo nelle sue doti come un novello Matthew Bellamy.
Detto questo, va però anche sottolineato quanto i Delays non si vergognino di confezionare fresche e vincenti melodie pop in bui periodi dominati da dark-wave e punk-funk revival, in cui ogni clone (ed è tutto dire...) di Strokes e/o Libertines-Interpol-Franz Ferdinand sbanca indistintamente le classifiche: "Valentine", il primo singolo danzereccio, pare uscito da "Ray Of Light" di Madonna, con quella ritmica disco e la melodia contagiosa; "This Town's Religion" pesca dalla tradizione chitarristica inglese (U2 e Coldplay, accoppiata vincente), mentre "Sink Like A Stone" preferisce allentare la corda e profumare di jingle-jangle un brano alla Stone Roses.
Il sound etereo, celestiale dell'esordio lascia posto a cavalcate come "You & Me", col synth in evidenza e il bel lavoro di chitarra e basso. Su tutto una patina dolciastra di grandeur e maestosità, che magari piacerà a qualche nostalgico "over 35", ma rischia alla lunga di tediare tutti gli altri: le idee e i buoni spunti ci sono (come l'imprevedibile "Too Much In Your Life", ammansita e domata neanche fosse un cavallo selvaggio), asfissiati però da lacca, paillettes e glamour come se piovesse.
Se tiriamo le somme ci accorgiamo di un lavoro gradevole a tratti, coraggioso per certi versi.
Non preoccuparti Greg: verrà comunque strombazzato da tutte le radio e le televisioni commerciali, regalandoti nuove file di teenager in delirio. Qualcuno crederà pure alle tue provocazioni, sbattendo in prima pagina "il rinascimento dell'indie", proprio come volevi tu.
La cosa divertente è che, foste usciti nel 1996, ai tempi degli ultimi fuochi britpop, quasi nessuno se ne sarebbe accorto: Cast, Bluetones, Manswear, Dodgy, Shed Seven. I Mansun vi avrebbero battuto a tavolino sul vostro stesso campo. Ma sono passati dieci anni, pazienza.
In attesa di nuovi, giovani pretendenti al "trono" e alla "sparata dell'anno", vi beccate un voto d'attesa. Senza infamia e senza lode, com'è d'altronde la vostra musica.
19/03/2006