La poetica delle piccole cose, l’iterazione di movimenti appena percettibili e la graduale stratificazione di strumenti su un flusso sonoro dilatato: sono queste, da sempre, le impronte caratteristiche delle opere di Matthew Cooper, compositore di stanza a Louisville, che negli ultimi anni si è distinto, sotto il moniker Eluvium, per la sua acuta esplorazione di astratti territori ambientali, ma anche per il recupero in chiave moderna di un afflato classico, espresso in vibranti composizioni per pianoforte.
“Copia” è la quarta prova sulla lunga distanza per Cooper ed è anche la più ambiziosa, poiché non solo conferma tutti gli elementi della sua musica, ma li accosta a una strumentazione mai così articolata, raggiungendo un punto di equilibrio tra l’eterea serenità ambientale di “Talk Amongst The Trees” e la grazia minimale del toccante album di quasi solo piano “An Accidental Memory In Case Of Death”.
Dall’impalpabile melodia di “Amreik” alla solennità di “Repose In Blue”, i quasi cinquantacinque minuti di “Copia” scorrono come un unico flusso onirico, modulato secondo forme diverse, che includono di volta in volta tappeti di drone ed esili distorsioni ma anche caldi suoni di pianoforte, fiati e archi, la cui interazione dà luogo a una forma di ambient orchestrale che coniuga modernità elettronica e romanticismo classico, secondo una sensibilità spesso non così distante dagli approcci emotivi che hanno fatto la fortuna di tante recenti produzioni post-rock.
In tale operazione, Cooper riesce tuttavia a non discostarsi mai troppo da un’impostazione concettuale incentrata sull’essenzialità di suoni creati o filtrati attraverso l’elettronica, indirizzati a un risultato omogeneo eppure cangiante secondo movenze lievi, intese all’evocazione di paesaggi nebbiosi e solitari, ma per nulla alieni da elementi di profonda emotività, che rendono la musica di Eluvium accessibile anche al di là dei confini, talvolta angusti, del genere.
Calde componenti umane sono, infatti, indubbiamente riscontrabili nei due pezzi nei quali è il pianoforte a prendere con decisione il sopravvento, ovvero “Radio Ballet” e soprattutto “Prelude For Time Feelers”, gioiello di grazia cristallina, costituito da poche leggiadre note pianistiche, che lievemente aumentano d’intensità avvolgendosi a una dilatazione di fondo infine trasformata in un liberatorio crescendo di impetuosa orchestralità sintetica. Il medesimo discorso è però valido anche per le composizioni apparentemente più piane e iterative, che pure vedono rincorrersi e sovrapporsi frequenze modulate e dilatazioni mai pervase da un pesante ottundimento ma semplicemente volte a disegnare un’inerzia dilatata (“Reciting The Airships”), oppure appena puntellata da rarefazioni stratificate e persistenti, nello stile dei migliori Stars Of The Lid (“Seeing You Off The Edges”), o ancora capaci di ispirare sentori di ovattata quiete nordica lungo gli oltre dieci minuti di “Indoor Swimming At The Space Station”, sogno a occhi aperti disseminato di melodie fioche, tocchi di piano e tenui increspature rumoriste.
Nella musica di Eluvium non vi è però solo serafica contemplazione, ma anche spazio per una latente inquietudine, distillata attraverso i toni notturni di “Requiem On Frankfort Ave.” e “After Nature” – ove è solo il suono degli archi a dialogare con i synth – oppure univocamente fluente nella quasi completa immobilità di “Ostinato”.
In tutte le diverse sfaccettature di “Copia”, Cooper riesce tuttavia a mantenere un’intensità incisiva e sfuggente al tempo stesso, capace di carezzare dolcemente il cuore e far fluttuare la mente, depotenziando il rischio di derive espressive pedanti o eccessivamente cervellotiche, sempre dietro l’angolo quando si è in presenza di una musica basata in prevalenza sulla lentezza e sull’iterazione.
Non sembri allora esagerato considerare questo lavoro come l’autentica sublimazione del suono di Eluvium, poiché la moderna declinazione orchestrale del minimalismo ambientale in esso presente è più che sufficiente a farne un’opera non solo artisticamente valida ma anche fruibile con una certa agevolezza, nonostante l’apparente complessità del bilanciamento tra l’anima ambientale e quella classica del suo autore. E se, nel completare tale operazione, l’immediatezza di “Copia” potrà risultare gradita anche da chi di solito non si avventura in territori ambientali ma pure apprezza atmosfere eteree e sognanti di matrice post-rock (i Mogwai più morbidi, i Sigur Rós) sarà solo un’ulteriore prova della capacità di Matthew Cooper di travalicare le forme di un’espressione musicale che appunto nella forma stessa non si esaurisce.
20/02/2007