L'altra mattina prendevo il caffè al bar, e alla radio hanno passato il nuovo singolo dei Baustelle, "Charlie fa surf". Mi è venuto in mente che da qualche parte ho letto che la canzone cita la famosa foto di Maurizio Cattelan, quella con lo studente dalle mani inchiodate al banco con delle matite (a sua volta citazione di una canzone dei Clash, "Charlie Don't Surf"). Non avevo mai provato ad accostare Cattelan ai Baustelle. Entrambi lì, tra la provocazione e il feticcio. Tra il j'accuse e lo sfottò. Charlie è veramente un indifeso povero teenager sotto psicofarmaci in cui il pubblico di Mtv Italia può identificarsi, o veramente piuttosto "una mazza da baseball quanto bene gli fa"?
Che l'opera finale piaccia o meno, la forza comunicativa è in ogni caso notevole. "Amen" è un disco cattelaniano, estremo. Tutte le caratteristiche dei Baustelle come li conosciamo sono amplificate al massimo: il citazionismo radical-chic diventa sfrenato (persino la copertina ricorda con sospetto l'omonimo dei La's), l'interpretazione chansonnier raggiunge nuove vette (l'"effetto De André" è perfetto in "Antropophagus"), gli arrangiamenti terminano il processo di alta-fidelizzazione, ricercatezza e piuccheabbondanza a cui assistevamo da "La Moda del Lento" passando per "La Malavita", le liriche, sempre più contestualizzate, si trasformano da versi a manifesti, slogan, meta-arte.
Cattelan è un artista concettuale, eppure le sue opere sono esteticamente perfette, quasi maniacali. Allo stesso modo i Baustelle sono diventati maniacalmente formali. Il disco è iperprodotto, perfettamente bilanciato tra i singoloni col riffone (se non fosse per Brasini, che suona la chitarra come se frustasse dei buoi attaccati all'aratro, Bianconi sarebbe un meraviglioso Jens Lekman nostrano) e composizioni estremamente sofisticate, alle vette della canzone italiana, cose che potrebbero cantare Mina e Celentano, per capirci.
E poi che dire di quei brevi spazi strumentali? Omaggi agli ospiti (Mulatu Atsatke, Beatrice Antolini), sfoggio di ritrovata ecletticità elettronica (l'intermezzo quasi-house di "Baudelaire"), oppure vanesi riempitivi per riempire il cd e cullarsi nella pia illusione che così qualcuno si convinca che valga la pena spenderci 18 euro? Cattelan non ha questi problemi, non ha il pubblico umorale del pop, non è schiavo della promozione, delle interviste obbligate dove deve ripetere sempre le stesse cose, mentre gli altri membri della band fanno finta di non annoiarsi a morte, dei mezzi di comunicazione di massa e di un batterista pestone che ci fa rimpiangere il desaparecido Claudio Chiari. Non vende dischi "in questo modo orrendo", Cattelan.
Eppure, nella tragicità di questa situazione, i Baustelle partoriscono un album profondo, pieno di suoni da sentire, di parole da cogliere. E non tanto per l'affascinante visione bianconiana del divino, di cui ci eravamo accorti già da un po', ma anche per le canzoni della Bastreghi, il cui unico difetto è avere un timbro vocale un po' troppo vicino a una nota cantante nazionalpopolare poco amata in certi circoli della pseudointellighenzia milanese che si leggono nei ringraziamenti.
Le canzoni mi consentirebbero di fare una sfilza di citazioni colte da sfidare il listone di "Baudelaire": Umiliani, Trovajoli (non a caso il cameo del fischio più famoso del mondo, quello di Alessandroni), Lee Hazlewood, e forse anche qualcuno ancora più vecchio come C. A. Rossi (altra cosa rispetto a C. U. Rossi, direttore artistico dell'album), ma alla fine riconosco per primi loro, i Baustelle, anche dietro gli strati di orchestra, di fisarmonica, di spinetta, di post-produzione, di batteristi e chitarristi pestoni, di n cose di cui si poteva fare volentieri a meno, riconosco che Bianconi è lo stesso che ha scritto "Gomma", "Il seno", "Cuore di tenebra".
Questo disco ruggisce, è l'opera matura di una band che sta dando tutto mentre la fragile architettura su cui si reggono i suoi destini le sta crollando addosso (il liberismo avrà anche i giorni contati, ma il capitalismo no e il formato-album è una delle prossime vittime), con una lucidità sorprendente rispetto a noi consumatori, signori e signore e il nostro "eterno roteare come agnello nel kebab". E anche dopo essere stato messo a nudo, sotto processo, ecco che tutto il peso della caparbietà di "Amen" incombe anche sul più scettico degli ascoltatori, placido e sicuro nella sua posizione di osservatore asettico, lettore di dischi, contabile del medium. Lo paralizza, lo induce a riflettere, a ripentirsi, quasi.
21/02/2008