Ci sono dischi che vengono da lontano. Dischi in cui, prima ancora della musica, viene la storia che hanno da raccontare. Dischi che chiedono di immergersi fino in fondo tra le loro pagine, se si vuole davvero catturarne l'essenza.
"True Love Cast Out All Evil" non è soltanto il primo disco di Roky Erickson da quindici anni a questa parte. Non è nemmeno il semplice frutto dell'incontro tra il passato garage-psych dei 13th Floor Elevators e il presente indie-folk degli Okkervil River. È piuttosto una sorta di autobiografia musicale, il diario di una vita tormentata e sempre sospesa sul vuoto. Ancora di più, è un viaggio al termine della notte in cui il buio della follia giunge a sfociare nella ricerca di una rivelazione.
Il fruscio di una vecchia registrazione sembra sbucare dal nulla, trasportando lontano nel tempo e nello spazio, tra le mura opprimenti di un manicomio criminale. Non è un vezzo lo-fi, quello dell'iniziale "Devotional Number One": è un brandello di esperienza, una testimonianza diretta degli scarni bozzetti raccolti con una chitarra e un microfono di fortuna da Roky Erickson nel corso degli anni, a partire dal giorno in cui venne rinchiuso per la prima volta in un ospedale psichiatrico, alla fine degli anni Sessanta. Declamava frasi sconnesse in preda agli acidi e la terapia a base di elettroshock e psicofarmaci che gli venne imposta al Rusk State Hospital non fece altro che peggiorare la situazione: le sue canzoni rimasero l'unica cosa a cui potersi continuare ad aggrappare.
I brani di "True Love Cast Out All Evil" vengono proprio da quell'archivio di registrazioni dimenticate, cui qualche anno fa aveva già attinto anche l'acclamato "Never Say Goodbye". Il leader degli Okkervil River, Will Sheff, ha avuto a disposizione una sessantina di demo tra cui scegliere i brani da rileggere al fianco di Erickson: ha voluto cercare di cogliere quelli secondo lui più emblematici rispetto alla traiettoria umana dell'ormai sessantatreenne icona della psichedelia americana, offrendo l'ausilio degli Okkervil River come backing band d'eccezione. "Non è un cinico comeback record", tiene a sottolineare, "sono le migliori canzoni che Roky abbia mai scritto, rimaste inedite a causa di decenni segnati da tragedie personali che avrebbero distrutto qualunque persona con una minore capacità di ripresa".
Più che un disco di nuove canzoni, "True Love Cast Out All Evil" si presenta allora come una summa della vita di Erickson declinata al presente, dalle ossessioni della schizofrenia sino al percorso di una lenta rinascita. Il prologo e l'epilogo dell'album, però, sono stati conservati da Sheff in tutta la loro nudità, con l'unica aggiunta di una cascata di archi a farsi strada all'improvviso tra voci e rumori di sottofondo. Così, l'invocazione di "Devotional Number One" suona come il grido di uno spirito perduto che anela alla possibilità di risorgere: "Don't wait to Christ to come / He has already risen". Gli Okkervil River entrano in scena quasi con discrezione, disegnando un country-folk alla Kris Kristofferson intorno ai terribili ricordi evocati in "Ain't Blues Too Sad" dalla voce rauca di Erickson: "Electricity hammered me through my head / Till nothing at all was backwards instead".
L'inizio della collaborazione con gli Okkervil River, uniti a Erickson dalle comuni radici texane, risale al 2008, quando la band lo ha accompagnato in occasione degli Austin Music Awards. Sheff e soci mostrano di volersi adattare alla personalità delle canzoni, dal vivace profumo byrdsiano di "Bring Back The Past" al riff granitico di "John Lawman", che richiama l'hard rock dei dischi a base di alieni e vampiri realizzati da Erickson negli anni Ottanta. Ma è quando la band non teme di lasciare la propria impronta che gli esiti diventano più compiuti, dalle tinte folk di "Birds'd Crash" e "Forever" fino a "Think Of As One", con una chitarra che sembra uscita da "The Stage Names" e un accompagnamento di fiati e percussioni capace di farne uno degli episodi più accattivanti del disco.
L'ultima apparizione discografica di Roky Erickson, risalente al 1995 con "All That May Do My Rhyme", scontava il limite di un'eccessiva pulizia e di una realizzazione sin troppo convenzionale. Gli Okkervil River si accostano invece alle canzoni di Erickson con il rispetto di chi non vuole snaturare la musica di uno dei propri eroi, ma anche con il desiderio di liberare ogni obliqua scintilla di genio, facendola suonare più che mai attuale. Il pensiero corre inevitabilmente alla cura dedicata dal compianto Mark Linkous alle composizioni di un altro stralunato songwriter, Daniel Johnston, in "Fear Yourself": un approccio che ricorda da vicino quello seguito da Will Sheff nella produzione di "True Love Cast Out All Evil".
"Goodbye Sweet Dreams", cantata con candida intensità da Erickson nelle scene finali del documentario "You're Gonna Miss Me" del 2005, assume un andamento epico, tra schegge di distorsioni e di elettricità. "Please Judge", già in "All That May Do My Rhyme", rallenta fino a diventare una supplica ("Don't send or keep that boy away"), interrompendosi in un caotico intermezzo di rumori: è il frastuono di cui Erickson doveva circondarsi per cercare di sovrastare le voci che lo perseguitavano. Poi, sulle note del pianoforte, "Be And Bring Home" (portata alla luce in "Never Say Goodbye") acquista la solennità di una ballata a metà strada tra Warren Zevon e John Fogerty. Ed Erickson confessa con struggente schiettezza tutto il suo bisogno di ritrovare una casa: "Suddendly I may control / Take little things meaning big so I'm not alone / Suddenly I'm not sick / Won't you be and bring me home".
Ma quella di "True Love Cast Out All Evil" non è una storia di disperazione: al contrario, è una sofferta celebrazione della speranza. Lo suggerisce il brano che dà il titolo all'album: i demoni dell'animo possono essere vinti, il male non è destinato a prevalere. "Di solito non credo alle storie sui miracoli", afferma Sheff nelle corpose liner notes del disco. "Tuttavia, avendo visto di persona quello che è successo nella vita di Roky, mi sorprendo di essere io stesso a garantire che il suo riscatto è reale. È una cosa che mi fa sentire piccolo e umile, il che è un bel modo di sentirsi".
La parola torna così a quella traballante chitarra, rimasta fedele anche nei frangenti più travagliati della vita. Annuncia la conquista di una nuova coscienza, che nell'eco sgranato della voce di Erickson si spoglia di ogni retorica, per penetrare fino alla stoffa della realtà: "God is everywhere / Everywhere is where / And everywhere as all positivity". Splendida follia, quella che porta a guardare il mondo con questi occhi.
22/04/2010