Quegli occhi impossibili da dimenticare: rieccoli, all'improvviso. Incontrarla di nuovo, incrociare il suo sguardo per caso. E rivivere tutto in un istante, come se non fosse passato nemmeno un giorno.
"Love vs. Time": è intorno al confine di questo dualismo che gravita il quarto album di Chris Bathgate. "Il vecchio amore non abbandona mai il tuo sistema, rimane dentro di te come un motivo insistente", riflette. Tempo che erode l'amore, amore che sopravvive al tempo. Un pugno di canzoni in cui le ombre del passato diventano il primo passo per un nuovo inizio.
Il sale brucia le ferite, il sale restituisce il gusto. "Le canzoni di "Salt Year" sono come il grido di battaglia per un periodo tormentato: registrarle è stata un'esperienza dolorosa e gioiosa". Bathgate ha attraversato il suo anno salato combattendo una lotta senza tregua con sé stesso. Il suo ritorno, a quattro anni di distanza dal precedente "A Cork Tale Wake", ha il sapore di una più sofferta consapevolezza. Una strada che riprende là dove si era interrotta, inoltrandosi ancora più addentro nei territori di quel continente perduto chiamato Americana.
Tutto parte da lontano, dall'arpeggio con cui "Coda (Ann St. Part 2)" chiudeva il sipario su "A Cork Tale Wake": quelle stesse note si affacciano ora in "Everything (Ouverture)", ad accompagnare un dialogo tra fiati e mandolino che Bathgate stesso definisce la "pietra miliare" di "Salt Year". Da lì si dipana un intreccio di rimandi e suggestioni, che intesse i brani del disco l'uno con l'altro. "È come se le melodie divenissero dei personaggi, non soltanto dei temi. Rappresentano persone, sensazioni e passaggi di tempo, riferimenti alla mia personale mitologia, a frammenti del mio orizzonte".
Ancora prima della sostanza stessa dei brani, in "Salt Year" a colpire è lo spessore e la profondità della trama. L'intercalare di batteria di "Levee" è l'approssimarsi di un rombo di burrasca, l'ingresso solenne dei fiati tra i giochi di specchi di "Fur Curled On The Sad Road" è solcato da una lama di elettricità. E "No Silver", offerta come anteprima in download gratuito, tramuta i suoi ricami di banjo in uno scricchiolio antico che scandisce la marcia. Echi in lontananza, silenzi e crescendo: la cura è nelle sfumature, frutto di un cesello a cui Bathgate si è dedicato per la prima volta direttamente in studio, investendo ogni centesimo per poter approfittare di un'ora di registrazione in più.
Tra gli interrogativi inquieti di "Eliza (Hue)", il pianoforte apre la via alla coralità di una danza condotta dagli archi. Un omaggio alla memoria, da parte di un cultore della tradizione della musica per fiddle come Bathgate, che introduce la figura centrale del disco: Eliza, archetipo femminile che porta impressi "i tratti dell'icona rurale americana". Sposa, madre, figura dell'ideale, sguardo che scruta le nubi in "Poor Eliza" mentre si allungano le ombre della sera. "È una città di campagna abbandonata. È il mio più alto concetto di persona".
Il passo di "In The City", accompagnato dalla tromba di Ross Huff, assume le tinte degli American Music Club meno ombrosi, gli spunti di chitarra di "Time" si vivacizzano di accenti Wilco. Non indulgono all'introversione, le canzoni di "Salt Year", non si fermano allo stereotipo del menestrello. A dichiarare le ambizioni di Bathgate è il confronto con le precedenti versioni di due episodi del nuovo disco: "Own Design", già anticipata nello split su vinile con Hezekiah Jones "The Ashville Squints", acquista plasticità intorno a un riff ostinato, mentre la title track, che compariva scarna e rarefatta nell'Ep "Wait, Skeleton", si ammorbidisce grazie alla carezza della pedal steel.
Abbrivio e traguardo al tempo stesso, "Everything (Ouverture)" porta a compimento la traiettoria di "Salt Year": "Every love I've pushed away/ No matter how far I stray/ It still remains". Quello che sembrava cancellato dal tempo ha lasciato in realtà una traccia indelebile. Nemmeno il dolore è sprecato, nemmeno un istante è perduto.
17/04/2011