Ha ragione Cormac McCarthy: forse solo alla fine dei tempi vedremo davvero il mondo per quello che è. La maestosa imponenza delle montagne, l'orizzonte infinto degli oceani. E il silenzio farsi musica. Per ora, possiamo solo sentirne un'eco, antica e profetica al tempo stesso. "Musica folk per la fine del mondo", potremmo chiamarla: proprio come suggeriva il titolo di quella raccolta della YerBird Records che, nel 2007, ha contribuito a consacrare il nome di Chris Bathgate tra i più promettenti songwriter della sua generazione. Una generazione che non teme di tornare a imparare la lingua della tradizione, per declinarla al presente del proprio cuore. Perché, come spiega Bathgate, "la maggior parte della musica tradizionale, per noi, è come il mostrarsi dell'essenza; è la documentazione delle sottigliezze dell'esistente".
Per uno come Chris Bathgate, cresciuto nel ventre rurale dell'America, il legame con la terra ha un aspetto profondamente intimo. È un nesso di appartenenza. Nato nell'Iowa nel 1982, nonostante i ripetuti trasferimenti (prima nel Kentucky, poi nell'Illinois) i suoi primi anni di vita hanno gravitato tutti intorno al Midwest: "Fino alla fine delle elementari ho vissuto nella periferia di una città di nome Rockford", racconta. "Poi la nostra famiglia è andata a stare in una casa di campagna tra i campi di granoturco di Pecatonica. Non c'era neanche un semaforo, aveva una forte identità di piccola città rurale. Dovevamo guidare il trattore fino a scuola durante la settimana del ballo di fine anno. Con il senno di poi c'era davvero poco contatto con il mondo esterno, a parte la televisione. Era un posto strano e magico per crescere".
Ogni tanto, qualcosa filtrava fino a Pecatonica, Illinois: "In città arrivavano alcuni grandi festival, perché la fiera "Winnebago Country Fairgrounds" aveva sede lì. Un anno è arrivato Lollapalooza, ma non sono andato. Una volta è arrivato anche il Further Fest, ma in una versione techno invece della reunion dei membri dei Grateful Dead. Stavo tornando a casa e c'era una coda lunga tutta la città per i telefoni pubblici. Ragazzi con ciuffi viola e il resto dei capelli rasati se ne stavano sui marciapiedi con i loro enormi pantaloni".
Eppure, la musica ha sempre intessuto le sue giornate: la sua prima band, alle superiori, era un gruppo heavy metal ("il nome è meglio non dirlo..."), ma a cambiargli la vita è stato "Being There" degli Wilco. "Ho scritto canzoni fin da quando avevo sedici anni. Registravo almeno una cassetta all'anno fino all'inizio del college, quando sono passato ai cdr. È l'unica cosa che mi è sempre interessata".
Save one for the morning
Edifici moderni e lineari, prati dalle ordinate geometrie, una torre squadrata che si staglia all'orizzonte: Ann Arbor è una città di poco più di centomila abitanti che ruota intorno allo storico campus della University of Michigan. Il college è il punto di svolta per Bathgate: si iscrive alla School Of Art And Design dell'ateneo, e intanto si esibisce nei caffè locali, tiene workshop di songwriting ed improvvisa danze folk con gli amici. Con Karl Sturk e Michael Beauchamp dà vita a un trio folk-bluegrass, gli Ambitious Brothers: "Eravamo una sorta di versione hipster del Kingston Trio. Suonavamo nei giardini delle case e sulle verande del ghetto studentesco. Verso la fine penso che abbiamo suonato anche in una sala da the e una volta sul palco della fiera d'arte di Ann Arbor".
Quella del Michigan è una comunità artistica piena di vitalità. "Ne sono molto orgoglioso. Sono circondato da straordinari autori di canzoni e ci conosciamo tutti piuttosto bene tra di noi". Proprio in quel contesto, Bathgate si unisce a un "supergruppo di amici folli" dall'improbabile nome di The Descent Of The Holy Ghost Church: "La cosa più vicina ai Fleetwood Mac di cui probabilmente ho mai fatto esperienza", lo definisce. La scrittura è divisa più o meno equamente tra Bathgate e Jansen Swy e tra le (affollate) fila del gruppo c'è spazio anche per un altro dei futuri nomi di punta del cantautorato locale, Matt Jones. Prima di sciogliersi, la band riesce a registrare un unico album, "realizzato letteralmente in due confuse giornate in un capanno sul lago Michigan".
"Ho sempre suonato musica per conto mio, in qualche maniera, ma il 2005 ha portato probabilmente con sé una suggestione più ufficiale circa il fatto di essere un'entità totalmente separata dagli altri progetti a cui avevo partecipato". A sancire l'inizio della nuova fase è una raccolta di canzoni autoprodotta, che nel 2005 assume le vesti del primo album solista vero e proprio di Bathgate: Silence Is For Suckers.
Nonostante l'approccio necessariamente spartano, Silence Is For Suckers mostra già una sorprendente cura per i dettagli. Punteggiature di tastiere incalzano il crescendo di "Save One For The Morning", sostenuto da intrecci di tromba, archi e chitarra elettrica, mentre la batteria scandisce il fremito inquieto di "The Truth", guidandolo verso spigoli taglienti.
Tra leggerezze pop ("Loveless Son"), marce agresti ("Riverwide") e spazi sospesi ("I've Been Saving Up"), Bathgate trasfigura ricordi ed emozioni in una serie di fotogrammi in chiaroscuro: "Mi ritengo il prodotto delle mie esperienze e dei miei pensieri, e questo è quel che rappresentano anche le mie canzoni", afferma. Per lui, l'arte del songwriting non ha nulla di antiquato, perché "ci sarà sempre gente che ambisce a scrivere l'archetipo perfetto".
L'architettura di brani come "Iris" e "The 44's" si fonda sul trittico chitarra-banjo-voce, attingendo direttamente alla sorgente delle radici folk. "Per andare oltre quello che la tradizione rappresenta", riflette Bathgate, "è necessario addentrarsi prima nella sua dinamica: e forse è proprio qui che si trova il punto di equilibrio". Per spiegarlo, Bathgate si rifà alla storia della Carter Family: "Alcune delle loro canzoni erano un miscuglio di una quantità di brani presi da fonti diverse. Hanno fatto un bel po' di soldi appropriandosi della musica di comunità isolate. A.P. Carter andava in giro a collezionare melodie, canzoni e versi dalla gente. Quei brani non erano necessariamente accurati dal punto di vista storico, ma senza la sua opera di raccolta - e di appropriazione - non ne sarebbe rimasto nulla".
Silence and truth betroth
"Scrivo canzoni. Tutte sono vere, tutte sono qualcosa che è accaduto, tutte sono un'idea, tutte sono profondamente radicate nel mio cuore". Così si presenta Chris Bathgate sulla propria pagina di MySpace. Ed è proprio attraverso il web che il suo nome comincia a farsi notare anche al di fuori dei confini del Michigan: grazie al passaparola virtuale dei blog, il secondo disco di Bathgate, Throatsleep, conquista nel 2006 un posto di tutto rilievo tra le promesse del songwriting americano.
Le distorsioni dai contorni acidi e la secca batteria dell'iniziale "Creak, Cure, Dawn" portano subito alla memoria il primo John Vanderslice, con le sue narrazioni asciutte e taglienti. "Ho imparato a cantare dallo scricchiolio del patibolo", canta Bathgate, e la sua voce tesa e vibrante ne dà diretta testimonianza in un fluire di penetranti chiaroscuri. Da un lamento che sembra sbucare dalla gola di Will Oldham nascono gli accenti nitidi di chitarra che scandiscono "The Darkness Was Vague". E l'apparizione improvvisa dei fiati è come un miraggio di inatteso lirismo, che conduce tra le braccia dei The Robot Ate Me di "Carousel Waltz".
"I Know How You Are Going To Die Tonight" è una minaccia ed un'implorazione al tempo stesso, un'incalzante filastrocca folk per la notte di Halloween a base di pianoforte, violino, fiati e banjo, che con la sua andatura da banda di paese potrebbe appartenere agli Okkervil River degli esordi. "Yes, I'm Cold" è il picchiettare di una pioggia dimenticata sulle tettoie dell'anima, mentre un tintinnio fiabesco di campanellini si trasforma in un rincorrersi di percussioni dal ritmo ondeggiante. Ma ad inchiodare definitivamente al cuore pulsante di Throatsleep è l'arpeggio rarefatto e struggente di ": A Problem In Dissonance Solved", che lascia fremere la voce scura e carezzevole di Bathgate su uno sfondo di riverberi sintetici.
Le ballate notturne di Bathgate si inseguono attraverso i due capitoli in cui si suddivide l'album, "Throat" e "Sleep", tra carezze acustiche ("Buffalo Girl"), elegie folk ("Feather Jaw") e romanticismi pianistici velati di archi ("All My Friends Have Been Replaced With Cities"). "Le mie canzoni assuono la forma mentale di una vasta nuvola nera. Scrivere canzoni, per me, è in parte un'abitudine e in parte un elemento essenziale per la mia sanità mentale".
Tradimento e menzogna, desiderio e prostrazione, conforto e silenzio aleggiano come spettri nella luce lunare dei versi di Throatsleep. "Seguirò ogni verso finché non avrò assassinato ogni parola", mormora Bathgate in "Little Bird In Coffin Come": ed il suono di ogni sillaba incide un solco fatto di immagini vivide e brucianti. I cuori sembrano cadere dal petto, ogni notte sembra condurre al punto di morire: "I sing most every night / When the lights are low and we all die / And die most every night / We die, we die, we die". Ma il banjo di "We Die" non è un canto funebre, è un estremo anelito di speranza: "One thing I'll promise thine / Is I'll live, I'll live tonight".
Dopo la pubblicazione di Throatsleep (che nel 2007 viene riproposto in veste ufficiale dall'etichetta locale Fox On A Hill), Bathgate va in tour con i Saturday Looks Good To Me e viene premiato come "Best Solo Artist In Michigan" dalla rivista "Real Detroit Weekly". La sua reputazione di performer cresce sera dopo sera: sul modello di artisti come Joseph Arthur e Andrew Bird, Bathgate utilizza spesso sul palco la tecnica di registrare al momento dei loop da utilizzare come basi per arricchire la veste dei propri brani. "Quando mi esibisco oscillo tipicamente da momenti di estrema focalizzazione sulle reazioni del pubblico, in cui il mio corpo diventa come uno strumento sul palco, a momenti di totale perdita della percezione di quello che mi circonda. A volte spazio completamente intorno a me e mi dimentico persino di stare suonando, mi limito ad ascoltare i suoni che produco".
Nello stesso periodo, oltre ad una solenne rilettura del traditional "Auld Lang Syne", il songwriter americano sforna altri due lavori in rapida successione: se The Single Road I Long For è un'escursione in territori più classicamente country e bluegrass, A Detailed Account Of Three Dreams anticipa in una spoglia versione acustica tre brani destinati a essere inclusi nel successivo album di Bathgate: "The Last Wine Of Winter", "Every Wall You Own" e "Cold Fusion (Snakes)". Un nuovo passo è alle porte.
My days all serpentine
Non capita tutti i giorni di arrivare al proprio esordio nel mercato discografico con gli occhi già puntati addosso: soprattutto per un songwriter che non indulge in stramberie freak, non strizza l'occhio all'indietronica o non sprofonda nel nichilismo dei propri silenzi... Ma i consensi raccolti da Throatsleep fanno crescere l'attesa intorno alla prima uscita di Bathgate per un'etichetta vera e propria. A scommettere su di lui è la Quite Scientific Records di Ann Arbor, che nell'estate del 2007 dà alle stampe A Cork Tale Wake.
Dove prima i tratteggi apparivano frastagliati, ora dominano i contorni netti: l'orizzonte è movimentato da nuove increspature elettriche e la voce avvolgente di Bathgate si distende su un suono nitido e concreto come non mai, frutto della collaborazione con il produttore e songwriter Jim Roll, anch'egli di stanza ad Ann Arbor.
A segnare lo spartiacque con il passato ci pensano le chitarre dense ed incalzanti di "Smiles Like A Fist", un brano rock dalla presa magnetica ed immediata che sembra voler rivendicare l'eredità della "Son Of Sam" di Elliott Smith. Ma non basta, perché la tromba di Ross Huff e la batteria di Matt Jones spingono "Every Wall You Own" e "Restless" a scalpitare con la vivacità dei Decemberists.
In A Cork Tale Wake, Bathgate rivela una sorprendente sicurezza nell'alternare momenti estroversi e ripiegamenti intimisti, in cui le trame acustiche si accompagnano al pathos del violoncello di Colette Alexander ed allo sbocciare improvviso dei fiati.
Gli intrecci di pianoforte e violoncello di "Serpentine" potrebbero appartenere al giovane e visionario Springsteen di "Greetings From Asbury Park, N.J.", mentre il modo in cui la ballata acustica alla Jeff Tweedy di "The Last Parade On Ann St." si lascia sporcare di intrusioni elettriche sembra farne un segreto anello di congiunzione tra "A Ghost Is Born" e "Sky Blue Sky". E quando si culla in andamenti più classicamente country-folk, come in "Madison House" e in "Do What's Easy", il lirismo di Bathgate si pone senza esitazioni all'altezza della lezione di Micah P. Hinson.
I versi di A Cork Tale Wake sono sospiri di desiderio che si dibattono tra la fauci velenose della rassegnazione quotidiana. Stanze spoglie abitate da vecchi fantasmi e da una bottiglia dell'ultimo vino dell'inverno, parole e sguardi che feriscono come condanne: quello di A Cork Tale Wake è uno scenario in cui la speranza non sembra altro che una moneta rubata dal fondo del pozzo dei desideri. Com'è possibile avere ancora il coraggio di un altro lancio, quando l'acqua è stata prosciugata dal peso del tradimento e della disillusione? "Forget your debts, because forgiveness exists". La cosa più semplice è proprio quella che sembra apparentemente impossibile: perdonare sé stessi. "Do what's easy".
A poco meno di un anno di distanza, giunge a fare da corollario all'album l'Ep Wait, Skeleton, epigrafe ideale per un suono ossuto e angoloso che mira a conciliare le aperture espressive di A Cork Tale Wake con la nuda intensità dei primi lavori artigianali di Bathgate. "Casual Way" e "Salt Year", tra sussulti di chitarra elettrica e improvvisi silenzi, evocano la magnetica poesia di Jeff Buckley. Dopo la litania di "Been Out All Night", "Cold Press Rail" fluttua sul violino spettrale di Susan Fawcett, infrangendosi sugli spigoli della chitarra.
Bathgate tesse una nuova versione di "Yes, I'm Cold", chiamando il banjo a conferire un sapore di marcia rurale all'incedere: Starbucks la sceglie come "Pick Of The Week" e per il songwriter americano si tratta della prima affermazione su vasta scala. La voce di Bathgate declama asciutta le proprie visioni fino allo scabro epilogo della title track, anch'essa rielaborazione di un vecchio brano risalente a Silence Is For Suckers, in cui compariva come traccia fantasma. Lo scheletro che aleggia sui suoi versi non è fatto per la polvere, ma per l'attesa. "Love has a way of saving you".
Con A Cork Tale Wake, Bathgate sbarca per la prima volta anche in Europa, grazie alla distribuzione della One Little Indian. "Serpentine" viene scelta come "Song Of The Day" dal network NPR e conquista il favore di testate del calibro di BBC e "The Independent". Bathgate partecipa alla compilation dell'etichetta folk YerBird "Folk Music For The End Of The World", accanto a nomi emergenti del cantautorato a stelle e strisce come J. Tillman e Hezekiah Jones. Proprio con Hezekiah Jones (aka Raphael Cutrufello) nasce nel corso degli anni un'affinità elettiva tutta particolare: dopo aver condiviso un'intervista doppia sulle pagine di OndaRock, i due pubblicheranno nel 2008 uno split su vinile dal titolo "The Ashville Squints", comprendente un inedito a testa. E nel 2011 Cutrufello includerà nel suo secondo album, "Have You Seen Our New Fort?", una cover di "The Last Parade On Ann St.".
Chocking down a salt
"Love vs. Time": è lungo il confine di questo dualismo che, dopo quattro anni di silenzio, Chris Bathgate torna nella primavera del 2011 con il suo quarto album, Salt Year. "Queste canzoni sono come il grido di battaglia per un periodo tormentato", spiega. "Registrarle è stata un'esperienza dolorosa e gioiosa". Bathgate attraversa il suo anno salato combattendo una lotta senza tregua con sé stesso. Il suo ritorno ha il sapore di una più sofferta consapevolezza: una strada che riprende là dove si era interrotta, inoltrandosi ancora più addentro nei territori di quel continente perduto chiamato Americana.
Tutto parte da lontano, dall'arpeggio con cui "Coda (Ann St. Part 2)" chiudeva il sipario su A Cork Tale Wake: quelle stesse note si affacciano ora in "Everything (Ouverture)", ad accompagnare un dialogo tra fiati e mandolino che Bathgate stesso definisce la "pietra miliare" di Salt Year. Da lì si dipana un intreccio di rimandi e suggestioni, che intesse i brani del disco l'uno con l'altro. "È come se le melodie divenissero dei personaggi, non soltanto dei temi. Rappresentano persone, sensazioni e passaggi di tempo, riferimenti alla mia personale mitologia, a frammenti del mio orizzonte".
Ancora prima della sostanza stessa dei brani, in Salt Year a colpire è lo spessore e la profondità della trama. L'intercalare di batteria di "Levee" è l'approssimarsi di un rombo di burrasca, l'ingresso solenne dei fiati in "Fur Curled On The Sad Road" è solcato da una lama di elettricità. E "No Silver" tramuta i suoi ricami di banjo in uno scricchiolio antico che scandisce la marcia. Echi in lontananza, silenzi e crescendo: la cura è nelle sfumature, frutto di un cesello a cui Bathgate si è dedicato per la prima volta direttamente in studio, investendo ogni centesimo per poter approfittare di un'ora di registrazione in più.
Tra gli interrogativi inquieti di "Eliza (Hue)", il pianoforte apre la via alla coralità di una danza condotta dagli archi. Un omaggio alla memoria, da parte di un cultore della tradizione della musica per fiddle come Bathgate, che introduce la figura centrale del disco: Eliza, archetipo femminile che porta impressi "i tratti dell'icona rurale americana". Sposa, madre, figura dell'ideale, sguardo che scruta le nubi in "Poor Eliza" mentre si allungano le ombre della sera. "È una città di campagna abbandonata. È il mio più alto concetto di persona".
Il passo di "In The City", accompagnato dalla tromba di Ross Huff, assume le tinte degli American Music Club meno ombrosi, gli spunti di chitarra di "Time" si vivacizzano di accenti Wilco. A dichiarare le ambizioni di Bathgate è il confronto con le precedenti versioni di due episodi del nuovo disco: "Own Design", già anticipata in "The Ashville Squints", acquista plasticità intorno a un riff ostinato, mentre la title track, che compariva scarna e rarefatta in Wait, Skeleton, si ammorbidisce grazie alla carezza della pedal steel.
Abbrivio e traguardo al tempo stesso, "Everything (Ouverture)" porta a compimento la traiettoria di Salt Year: "Every love I've pushed away / No matter how far I stray / It still remains". "Il vecchio amore non abbandona mai il tuo sistema, rimane dentro di te come un motivo insistente", riflette Bathgate. Quello che sembrava cancellato dal tempo ha lasciato in realtà una traccia indelebile. Nemmeno il dolore è sprecato, nemmeno un istante è perduto.
All my footsteps they return
Un passo dopo l’altro. Flettersi e distendersi. Il ritmo del respiro che cerca il suo equilibrio, con la lentezza di un fluire ipnotico. Il moto meccanico del corpo, il libero spaziare della mente.
Ha fatto un lungo cammino, Chris Bathgate. Tra le montagne, in mezzo ai boschi, lungo i pendii avvolti di foschia che compaiono sulla copertina dell’Ep che nel 2016 segna il suo ritorno, Old Factory. Si è perso nella natura contemplando l’orizzonte del New England dalla cima del monte Katahdin, ha insegnato letteratura nei corsi organizzati dall’università del Michigan. E la musica?
La musica, nonostante tutto, non l’ha tradito. Al momento di mettersi in viaggio, si era lasciato alle spalle un pugno di canzoni registrate a Detroit al fianco di Chris Koltay. Bathgate le ha completate con Matt Aguiluz a New Orleans e ha deciso finalmente di farle conoscere a tutti. “Sono il segno della mia uscita e del mio ritorno alla musica”, riflette. Una sorta di ponte tra l’io di ieri e quello di oggi.
Eppure, fin dalle prime note di “Big Ghost” è come ritrovarsi a casa: i riff netti, la ritmica solenne, l’avvilupparsi morbido della voce fino al crescendo finale. “Acorns” si srotola con il passo di un M. Ward dal sapore autunnale, restando a vibrare appesa a mezz’aria al suo “Hey man, Amen”. Tra l’Americana trasfigurata di Elvis Perkins e le tonalità elegiache di Hezekiah Jones, “Calvary” insinua i suoi interrogativi tra le pieghe del pianoforte e degli archi: “Ain’t it good to be alive/ With the wound still in your side?”. Celebrazione e calvario, intrecciati in una misteriosa unità: “Volevo esprimere il senso di trionfo della vita”, spiega Bathgate, “ma senza censurare il fatto che lo stesso messaggio può suonare cinico nei momenti più cupi”.
Tocca a Dizzy Seas, l’anno successivo, portare a compimento nella forma di un album vero e proprio la strada intrapresa con Old Factory. “As my footsteps start to fade/ How my thoughts they drift away”, annuncia “Northern Country Trail”, il brano chiamato ad anticipare il nuovo disco. Perdersi. Scomparire. È questo che Bathgate ha cercato lungo il percorso, e Dizzy Seas ne porta l’eco in ogni nota. Contorni impalpabili come le macchie di Rorschach della copertina, paesaggi atmosferici come il trascolare di un sogno ad occhi aperti: “Vorrei che la mente di chi ascolta potesse vagare liberamente durante una canzone”.
L’essenza è fatta sempre della materia prima del folk, come insegna il lirismo antico del fiddle di “Water”. Ma quel palpitare sottile che freme sottopelle, quello spaziare liquido che abbraccia il suono appartengono a una dimensione più onirica: “Sometimes my thoughts/ Are like lights on the water”.
Come un Bon Iver che non dimentica le proprie radici, il Bathgate di Dizzy Seas si immerge allora nel viaggio per lasciarsi trasportare lontano. Il banjo di “O(h)m” apre le porte a una danza dal sapore agreste, con la memoria del tempo degli esordi, delle pagine di Throatsleep. Il riff elettrico che scandisce l’incedere deciso di “Beg” rimanda all’Americana di Salt Year e A Cork Tale Wake. Poi, però, ecco “Hide” fluttuare sospesa, dilatarsi a mezz’aria sospinta dalle correnti del rimpianto: “All my wasted days come back to me/ Every hour, broken and dour, returns”.
È un bisogno di orizzonte a spingere Bathgate. “A un certo punto ho cominciato a sentirmi sempre più a disagio quando mi trovavo al chiuso”, racconta. “Non sopportavo più l’idea di avere un tetto sopra la testa”. Ci sono cose che solo il respiro degli spazi aperti può custodire. “All the breathing of the night/ All the shifting of the lights/ All I need now is a sign”, implora “Beg”.
L’imponenza della natura e della solitudine permea ogni brano: la traccia di un sentiero nella foresta, come nel video che accompagna “Northern Country Trail”; lo scintillio dell’acqua increspata dal vento, come nei versi di “Come To The Sea”; una chitarra dai fili d’argento che tesse i suoi intarsi.
Non basta un ascolto distratto per apprezzare la ricchezza della trama di Dizzy Seas. Ancora una volta, le stratificazioni dei brani di Bathgate chiedono di andare oltre la superficie, dalle spirali della title track alla chitarra nervosa di “Tintype Crisis”, fino al soffuso epilogo di “Nicosia”. Chiedono di lasciarsi andare, di guardarsi dentro. Di camminare nella notte con gli occhi pieni di domande: “How strange is the night?/ How strange is my time?/ How strange am I?”.
As if there was some holy center
Orfeo guida una Oldsmobile dell’85. Un carro funebre immacolato per varcare i cancelli degli inferi. Euridice lo attende tra i fiori di pesco, immobile nella sua veste candida. L’oltretomba ha le sembianze dei filari di un frutteto. Al centro del campo troneggia un vecchio organo a pompa, e lì accanto il cantastorie ripete il suo monito: “Don’t look back”.
La memoria e l’oblio, l’amore e la morte, la terra e il cielo: nel video di “Don’t Look Back” ci sono tutti i temi del nuovo album di Chris Bathgate. Il primo dopo cinque anni di silenzio, perché il songwriter americano seguie ormai un tempo dilatato, che sembra non conoscere la compulsività degli algoritmi. Il ritmo delle stagioni della vita, sempre in attesa di un compimento: “Ain’t it strange how the things we’ve done/ Often are a case of not enough/ That’s love, or something”.
Lo suggerisce già la copertina del disco, è quell’organo tra i rami fioriti il vero protagonista di The Significance Of Peaches. Dopo la pubblicazione di Dizzy Seas, Bathgate ha abbandonato il Michigan alla volta della California. Prima di partire, ha dovuto vendere tutti i suoi strumenti o lasciarli al banco dei pegni. Tutti tranne l’organo, l’unica costante in un momento di cambiamento radicale. Quando è entrato negli studi Tiny Telephone di John Vanderslice, a San Francisco, è stato naturale ripartire da lì: “È diventato come la nota centrale di un profumo”, spiega. La scia più avvolgente al cuore della piramide olfattiva.
Fin dall’iniziale “Sweet Fern”, così, è il suono liturgico dell’organo a fare da preludio a ogni brano, come un’eco del respiro del mondo. Ed è sempre l’organo a condurre con solenne confidenza le melodie attraverso la loro ossatura di battiti e pulsazioni. Non ci sono chitarre, stavolta, ma il modularsi della voce di Bathgate diventa uno strumento a tutti gli effetti. La necessità si fa chiave estetica del disco e la musica procede per sottrazione, verso un gospel rarefatto e meditativo.
A un certo punto, però, i soldi sono finiti. Ci sono voluti due anni, prima di poter riprendere in mano quelle registrazioni incompiute. Due anni in cui la vita di Bathgate è cambiata di nuovo: il ritorno in Michigan, l’avventura di costruire una famiglia, la nascita del primo figlio, la pandemia. Come per tutti noi, le cose hanno acquistato una prospettiva diversa: il legame con i luoghi, la relazione con gli altri, il sentimento della fragilità. I versi di “Bruises”, ispirati dal senso di alienazione della vita a San Francisco, hanno assunto lo slancio di un grido di fratellanza universale: “Can’t you see it? We’re connected/ Can’t you feel it, the connection?/ We’re spinning the same direction”.
Su una canoa cullata dalle acque al tramonto, Bathgate ha trasformato le sue sessioni in streaming da quarantena in un ritorno alla terra, alle radici. L’occasione per ritrovare l’humus della tradizione. Allo stesso modo, in The Significance Of Peaches il fiddle si insinua tra le pieghe di “Eliza”, quasi come un’invocazione a quella personale musa del folklore già cantata in Salt Year. Le parole del poeta irlandese Patrick Kavanagh riecheggiano nella cover di “Raglan Road” dei Dubliners, accompagnate dal canto sintetico delle tastiere. Ma non si tratta altro che di increspature, in una raccolta di canzoni più pura e compatta che mai: “Sono semplicemente io che dico la verità”, confessa Bathgate.
Le pesche del titolo, allora, diventano il simbolo di questo percorso. La ricerca del tempo perduto, il sapore della memoria di un’estate sospeso sul fluttuare della title track. La ricerca del nocciolo, del proprio personale asse del mondo, attraverso le peregrinazioni nei boschi di “The Van” (“As if there was some holy center/ As if my heart were free to wander”). La ricerca di qualcosa capace di durare, nascosto da qualche parte nella polpa dell’esistenza che fa vibrare “Stone”. Perché per Bathgate non c’è niente di più grande da lasciare a un figlio che un albero di pesche, “la dolce promessa di frutti che maturano nel tempo”.
Non è un'impresa facile, nel nuovo millennio, distinguersi nel panorama della tradizione cantautorale americana senza cadere nella trappola degli stilemi roots o del ripiegamento solipsistico. C'era riuscito Joseph Arthur ai tempi di "Come To Where I'm From" e successivamente è toccato a Micah P. Hinson raccogliere il testimone: Chris Bathgate sembra voler intraprendere la loro medesima strada, affondando con sorprendente maturità la lama dei propri versi in atmosfere ombrose ed appassionate.
Silence Is For Suckers (self released, 2005) | 7 | |
Throatsleep (self released, 2006) | 7,5 | |
The Single Road I Long For (Ep, self released, 2006) | 6,5 | |
A Detailed Account Of Three Dreams (Ep, self released, 2006) | 7 | |
A Cork Tale Wake (Quite Scientific, 2007) | 7,5 | |
Wait, Skeleton (Ep, Quite Scientific, 2008) | 7 | |
Salt Year (Quite Scientific, 2011) | 7,5 | |
Old Factory (Ep, Quite Scientific, 2016) | 7 | |
Dizzy Seas (Quite Scientific, 2017) | 7,5 | |
The Significance Of Peaches (Quite Scientific, 2022) | 7,5 |
Serpentine | |
Salt Year | |
Borders | |
Big Ghost | |
Northern Country Trail | |
Come To The Sea |
Sito ufficiale | |
Intervista con Chris Bathgate e Hezekiah Jones |