Ci si appresta ad ascoltare questo nuovo "Magic Hour" con non poche riserve, considerato l'antipasto sinora offertoci sotto forma di singoli tutt'altro che memorabili e incapaci di connettersi persino con quella fascia di pubblico che aveva fino ad ora premiato la bandnewyorchese. Come se non bastasse, gli Scissor Sisters si permettono pure un tiro mancino aprendo l'album con la godibilissima "Baby Come Home", uno dei loro classici e spensierati numeri pop dal retrogusto honky tonk - stavolta filtrato elettronicamente quasi fosse rimaneggiato dai Justice; ingranaggi che funzionano alla perfezione e che fanno subito esclamare con sollievo: "pericolo rientrato!".
E invece no, il danno è bello che compiuto e il loro quarto album è davvero costruito sulle coordinate sonore che ci si aspettava con timore, e quindi su quelle destrutturate dell'impacciato pseudo-rap su base electro-trash alla Nicki Minaj di "Shady Love" (con l'astro nascente dell'hip-hop Azealia Banks), la cui stravaganza fine a se stessa è ripresa anche dall'ancor meno divertente "Keep Your Shoes" e nella pacchiana bonus track "F*** Yeah".
E che dire della giungla urbana di "Let's Have A Kiki"? L'intento era forse quello di riproporre, vent'anni dopo, la glamour extravaganza dei Deee-Lite ma il colpaccio non riesce, perché manca una melodia vera e propria (si tratta praticamente di un monologo "telefonato" della Matronic), risultando all'atto pratico un curioso interludio tirato davvero troppo per le lunghe e capace solo di strappare un sorriso (niente di più).
Sorprendentemente i quattro falliscono anche quando ritornano in territori dance più classici e, teoricamente, a loro più congeniali: la canzone "Only The Horses", lanciata come singolo e incisa con l'aiuto del pilota automatico di Calvin Harris, sembra la sorella svogliata delle recenti collaborazioni del dj con Kelis e Rihanna e il ritornello, enfatico nell'intenzioni ma piatto nei risultati, non aiuta di certo. Risultati persino più fiacchi sono raggiunti dall'annoiato svolgimento di "Self Control", sostenuto da un dozzinale battito da house remix anni 90. Bisogna attendere la fine dell'album per tornare a tamburellare con gusto le dita: la disco moroderiana di "Somewhere" (quasi impossibile distinguerli dai Monarchy qui) non sarà forse in grado di spingere le gambe, ormai intorpidite, verso la pista da ballo ma almeno di riattivarne la circolazione.
E del loro pop sbarazzino e orecchiabile, promesso dalla traccia d'apertura, che ne è rimasto? Ci si potrebbe accontentare della baldanzosa acusticità di "San Louis Obispo" e dell'altrettanto estiva (a tinte addirittura dancehall) "Best In Me", ma si tratta di brani tanto utili ad ammorbidire i toni quanto banalotti e troppo sciropposi, soprattutto se confrontati a certi gioiellini che gli Scissor Sisters erano stati in grado di sfornare in passato.
Meglio quando rallentano i ritmi allora, col sulfureo arrangiamento di "Year Of Living Dangerously" (che eleva una melodia drammatica ma comunque non riuscitissima) e con la bella e decadente ballata scritta con Joan Wasser, "The Secret Life Of Letters", che Jake Shears interpreta con dolente convinzione da chansonnier ma che più fuori luogo non potrebbe suonare in un album come questo.
Dietro tante idee confuse è palpabile la loro frustrazione per non esser stati ancora premiati, a otto anni dal debutto, dal mercato statunitense ma questo rincorrere affannosamente, e con risultati poco convincenti, le attuali mode che spopolano nella loro madrepatria rischia solo di alienare anche i fan europei, sinora fedeli, e relegare nuovamente gli Scissor Sisters al ruolo di paladini della scena newyorchese en travesti.
L'hanno capito persino degli americani duri e puri come i Neptunes che, anziché snaturarli, producono per loro un bel lento marpione da night club anni 70, "Inevitable", che omaggia i Bee Gees e si aggiudica inevitabilmente il titolo di miglior pezzo di un disco troppo pasticciato.
26/05/2012