Bradford Cox è uno dei musicisti contemporanei più amati dal popolo indie, anche per la particolare storia personale segnata da un’infanzia difficile e da una terribile quanto rara malattia genetica (la sindrome di Marfan) che ha contribuito in maniera determinante al suo rinchiudersi nella musica. I Deerhunter, la sua creatura principale, erano attesissimi dopo una serie di album riusciti e ben accolti. I segni di grandezza mostrati finora lasciavano presagire l’arrivo di un album memorabile, quel capolavoro assoluto che è senz’altro nelle corde della band, ma che - va detto - neppure con “Monomania” viene realizzato.
I Deerhunter si confermano bravi sia a maneggiare il caos (“Leather Jacket II”, un garage-rock con spiccata personalità, eleggibile come miglior traccia del disco) che ad assecondare i mai sopiti istinti pop (“The Missing”, “Sleepwalking”); sanno farsi più americani in “Pensacola” ma anche assumere un passo da spy-story in “Blue Agent”, oppure diventare carezzevoli in “T.H.M.” e “Nitebike”, relegando l’unica digressione sonica sulla coda strumentale della title track. Rispetto al passato si scorge una forma canzone più nitida, un formato più canonico, che spesso svolazza verso certo pop obliquo concedendo minori spazi a sperimentalismi e divagazioni sul tema. Il risultato è una parziale sterzata che fa allontanare il quintetto di Atlanta dalle esplorazioni ambient-punk con cui lo stesso Cox amava classificarlo.
Più diretto e immediato dei suoi predecessori, “Monomania” cattura l’attenzione sin dal primo ascolto, ma rivela con altrettanta velocità l’evidente mancanza di spessore. C’è meno epicità e più concretezza in un disco che si presenta più fruibile ma al contempo più ripetitivo e meno sorprendente rispetto a “Cryptograms” o “Microcastle/Weird Era Cont.”. Scompare quasi completamente la vena psichedelica del gruppo, così come viene meno la produzione raffinata del precedente “Halcyon Digest”. Le strutture vengono lasciate in uno stato volutamente più grezzo e meno ricercato, più Lotus Plaza che Atlas Sound, tanto per intenderci. La semplicità “pop” in questo caso non si dimostra una virtù: tutto troppo scontato, senza sorprese, con poco mordente, e le pur belle melodie non riescono a stupire, nonostante la voce struggente e i buoni intrecci di chitarre. L'appuntamento con la storia è rinviato al prossimo capitolo...
29/04/2013