Jonathan Clancy è la mente di Settlefish e A Classic Education, due dei maggiori gruppi italiani da esportazione degli ultimi anni, ma anche collaboratore dei misconosciuti Glow Kids, un esperimento concettuale in coppia con Stefano Pilia, il suo record d’avanguardia. Clancy si mette in proprio con His Clancyness, con cui apparentemente riprende gli stimoli sperimentali dei Glow Kids.
Una prima prova viene dalla cassetta lo-fi “Hissometer” (Secret Furry Hole, 2009), un campionario di bozzetti del suo stile folk strimpellato e catalettico, con canto sovrainciso sfasato che quasi sogna i canti gregoriani (i riverberi di “Dream Tune”), e una punta di elettronica amatoriale nella base di “I Trust Your Way”.
Nel suo primo Ep “Always Mist” (Mirror Universe, 2010) Clancy si mostra cantautore più maturo e meno affidato ai semplici strimpellii, in un caleidoscopio stilistico corredato da arrangiamento e produzione di tutto punto: la stasi trascendentale di “Piece Of Cake”, il brill-building di “Just Like Monday”, la fragilità Neil Young-iana di “Mistify The Ocean”, il charleston etereo di “Vampire Summer”, la base trottante di “Misinterpret My Words”, e così via. La riedizione del 2012 (“Always Mist Revisited”) aggiunge, oltre ad alcune cover, il quasi shoegaze di “Summer Majestic”, un’altra stasi tutta elettronica simile a “Piece of Cake” come “Sight Prayer” e anche una lamentazione cosmica, “Last Dream on the Grass”, coronamento di una ricerca che in ultima analisi punta all’ultraterreno.
Il debutto lungo “Vicious” mantiene quell’elemento alieno mentre rinsalda melodie e orchestrazione, ed è un gusto per l’ibrido che si ripercuote in creazioni come “Crystal Clear”, gran parata di synth a ricordare la recente svolta di Cat Power di “Sun” (mentre la sezione ritmica scimmiotta la “Every Breath You Take” dei Police), e “Slash The Night”, altra trasformazione metafisica che sovrappone un passo da serenata charleston a una voce da crooner, avvolgendo il tutto nella suspense elettronica della produzione.
“Safe Around The Edges” annovera una serie di elementi d’interferenza con la canzone pop: controtempo psych, voce riverberata, intermezzo con ambience cupa; “Machines”, una sua versione più lineare alla “Sky of My Yellow Country Teeth” dei Clap Your Hands Say Yeah, aggiunge un’atmosfera anche più pronunciata. La più ritmicamente pimpante e contagiosa “Progress” proietta un’ombra di tastiera uggiosa che quasi allude a una dimensiona altera.
Il grosso dell’album è però dedito al new revival, da “Miss Out These Days”, ibrido di Syd Barrett e Yo La Tengo, con vibrazioni eteree di tastiere, ai semplici stornelli di “Gold Diggers”, ottima imitazione del pop retro di Atlas Sound (forse il momento più godibile con i suoi soli due minuti e rotti) e “Run Wild”, forse anche più convincente, al bubblegum allucinogeno di “Hunting Men”, di nuovo debitore dei Deerhunter, a “Zenith Diamond”, accelerazione garage-rock nu-wave alla Strokes e Arcade Fire. Passando per la ballata acustica di “Avenue”, un fugace intermezzo di personale ritorno alle origini, un vero momento glorioso è “Castle Sand Ambient”, tempo ribattuto perso in scenari magici.
Forgiato dall’usuale processo che porta dal progetto in solitaria alla band quasi formata (con lui Jacopo Borazzo e Paul Bieretto), Clancy ha cavato un disco che preserva vivacità e alto ritmo, carico di quieta ambizione e decalcomania di stilemi, e trova un modo efficace per sposare melodie gustose a contorni eterogenei. Qualche momento in altalena tra fascino e confusione. Produce Chris Koltay, forse con mano troppo pesante? Registrato in tre settimane, preceduto da un Ep che colleziona brani apparsi su split e remix (“Charade”).
24/10/2013