Una prima prova viene dalla cassetta lo-fi “Hissometer” (Secret Furry Hole, 2009), un campionario di bozzetti del suo stile folk strimpellato e catalettico, con canto sovrainciso sfasato che quasi sogna i canti gregoriani (i riverberi di “Dream Tune”), e una punta di elettronica amatoriale nella base di “I Trust Your Way”.
Nel suo primo Ep “Always Mist” (Mirror Universe, 2010) Clancy si mostra cantautore più maturo e meno affidato ai semplici strimpellii, in un caleidoscopio stilistico corredato da arrangiamento e produzione di tutto punto: la stasi trascendentale di “Piece Of Cake”, il brill-building di “Just Like Monday”, la fragilità Neil Young-iana di “Mistify The Ocean”, il charleston etereo di “Vampire Summer”, la base trottante di “Misinterpret My Words”, e così via. La riedizione del 2012 (“Always Mist Revisited”) aggiunge, oltre ad alcune cover, il quasi shoegaze di “Summer Majestic”, un’altra stasi tutta elettronica simile a “Piece of Cake” come “Sight Prayer” e anche una lamentazione cosmica, “Last Dream on the Grass”, coronamento di una ricerca che in ultima analisi punta all’ultraterreno.
Il debutto lungo “Vicious” mantiene quell’elemento alieno mentre rinsalda melodie e orchestrazione, ed è un gusto per l’ibrido che si ripercuote in creazioni come “Crystal Clear”, gran parata di synth a ricordare la recente svolta di Cat Power di “Sun” (mentre la sezione ritmica scimmiotta la “Every Breath You Take” dei Police), e “Slash The Night”, altra trasformazione metafisica che sovrappone un passo da serenata charleston a una voce da crooner, avvolgendo il tutto nella suspense elettronica della produzione.
“Safe Around The Edges” annovera una serie di elementi d’interferenza con la canzone pop: controtempo psych, voce riverberata, intermezzo con ambience cupa; “Machines”, una sua versione più lineare alla “Sky of My Yellow Country Teeth” dei Clap Your Hands Say Yeah, aggiunge un’atmosfera anche più pronunciata. La più ritmicamente pimpante e contagiosa “Progress” proietta un’ombra di tastiera uggiosa che quasi allude a una dimensiona altera.
Il grosso dell’album è però dedito al new revival, da “Miss Out These Days”, ibrido di Syd Barrett e Yo La Tengo, con vibrazioni eteree di tastiere, ai semplici stornelli di “Gold Diggers”, ottima imitazione del pop retro di Atlas Sound (forse il momento più godibile con i suoi soli due minuti e rotti) e “Run Wild”, forse anche più convincente, al bubblegum allucinogeno di “Hunting Men”, di nuovo debitore dei Deerhunter, a “Zenith Diamond”, accelerazione garage-rock nu-wave alla Strokes e Arcade Fire. Passando per la ballata acustica di “Avenue”, un fugace intermezzo di personale ritorno alle origini, un vero momento glorioso è “Castle Sand Ambient”, tempo ribattuto perso in scenari magici.
Forgiato dall’usuale processo che porta dal progetto in solitaria alla band quasi formata (con lui Jacopo Borazzo e Paul Bieretto), Clancy ha cavato un disco che preserva vivacità e alto ritmo, carico di quieta ambizione e decalcomania di stilemi, e trova un modo efficace per sposare melodie gustose a contorni eterogenei. Qualche momento in altalena tra fascino e confusione. Produce Chris Koltay, forse con mano troppo pesante? Registrato in tre settimane, preceduto da un Ep che colleziona brani apparsi su split e remix (“Charade”).
(24/10/2013)