Per Lou Barlow gli anni Novanta non sono mai finiti, e mai finiranno.
Sola filosofia praticabile, idea che non invecchia, linguaggio esclusivo tramite cui relazionarsi con la realtà, per rappresentarla. Era in anticipo di un buon lustro quando al fianco di J. Mascis licenziava l’indimenticabile “You're Living All Over Me”, mentre in tempi recenti pare essersi adeguato a una forma ormai cronica di ritardo, aggrappandosi con tenera ostinazione ai cliché di un revival che mai si sognerebbe di certificare come tale. L’ha anche messo in pausa il suo decennio propizio, in più di un’occasione, ma avendo sempre cura di riservare in primis a se stesso il medesimo trattamento, e di uscire dal letargo a scadenze pure lunghe ma regolari. E’ un po’ quanto capitato ai Sebadoh negli ultimi mesi, richiamati in servizio dopo oltre tredici anni di silenzio, interrotti solo sporadicamente da qualche concerto o dalle ristampe dei primi lavori. L’anno passato un Ep, diffuso in rete in download gratuito, e ora un nuovo album, l’ottavo, entrambi registrati in condizioni di radicale autarchia da Lou assieme a Jason Loewenstein e il di lui sodale Bob D’Amico, che nel frattempo hanno lavorato molto per Eleanor e Matthew Friedberger dentro e fuori i Fiery Furnaces.
Quello che fa gli onori di casa nell’inaugurale “I Will” è il Barlow intimo e fragile delle occasioni speciali, che non disdegna la modica quantità di rumore ma neppure intende screditarne la disciplina o, con essa, la propria indole romantica: sentimentale senza scadere nel sentimentalismo, in uno di quei numeri a effetto che – da “Soul And Fire” a “Easy”, passando per “On Fire” – gli sono sempre riusciti a meraviglia. Nulla di nuovo sotto il sole di Amherst insomma, anche se ritrovare intatte certe fragranze non può non far piacere, un po’ come avvenne nel 2007 con il ritorno pure onestissimo dei Dinosaur Jr.
Altrove (il finale a impennate della tigliosa “Beat”, la discreta muraglia sonica della title track) riecco invece i Sebadoh spigolosi e selvatici. Anche in questa variante meno edulcorata non si registrano significative novità da portare a referto ma la band si offre in condizione più che dignitosa, come a voler rassicurare che la ruggine accumulata non è poi chissà quanta. La temperatura qua e là tende ad alzarsi ma la compagine resiste alla tentazione delle formule post-hardcore preferendo, alla prova dei fatti, buttarla comunque in caciara come ai vecchi tempi, impazzando scanzonata nel suo vestitino DIY da battaglia, arrembante, ludica, beatamente superficiale. Per quanto a questo giro non sia stato coinvolto lo sbalestrato cofondatore Eric Gaffney, all’appello non mancano quegli episodi che lo ricordano più da vicino (la strumentale “Once”, ad esempio) per la loro tendenza a riproporre la gioiosa follia scapigliata che il gruppo sfoggiava con noncuranza venti e più anni fa.
Non ci si strappa le vesti per ovvie ragioni, ma il risultato è ancora abbastanza spontaneo e divertente. Un tantino prevedibili i tre statunitensi, ma non certo bolsi come i detrattori vorrebbero far credere: non esplosivi come una volta, magari, e con diverse idee egregie in meno, ma lo spirito dei Sebadoh pare comunque preservato, non falsato con accorgimenti ruffiani né anabolizzato sul piano formale. Chi si accosti a “Defend Yourself” in cerca di conferme sul talento di Barlow, non dovrebbe restare deluso: il Nostro si dimostra un autore efficace pure scrivendo canzoncine rotonde, rombanti e apparentemente frivole. Il compromesso tra sound anni 90 e limpidezza degli automatismi easy-listening riesce ancora felicissimo, anche quando il materiale non è proprio folgorante (“State Of Mine”) o ci si affida per mancanza di alternative a un lo-fi tanto risaputo quanto funzionale (“Listen”).
Meno brillanti, invece, le parentesi che rievocano gli ultimi Folk Implosion, quelli esistenzialisti e magnetici dell’album con Imaad Wasif, per quanto tiepidamente. A mascherare i limiti di una scrittura col fiato a tratti un po’ corto, pensano le stratificazioni opportune delle chitarre, il motore a pieno regime di quella di Loewenstein e, occasionalmente, quel piacevole olezzo nineties, a patto che la barra dei riferimenti punti sempre sull’indie-rock primigenio dei propri trascorsi piuttosto che sulle esperienze roots dell’epoca o sulla ruvidezza all’acqua di rose dei Soul Asylum di turno.
Tra strappi mai troppo cattivi e oasi più riflessive, l’andatura in altalena è ancora il più prezioso dei balsami che si potesse sperare di trovare in questa reunion. Conti alla mano, gli episodi turbolenti sembrano avere il sopravvento, seppur non poco limati in termini di asperità. Così il disco finisce per assomigliare alle migliori tra le ultime cose di un Rick Froberg: quadrato e indubbiamente ripulito rispetto agli anni d’oro, ma pur sempre frutto di una congrega di artisti che sanno il fatto loro. Il tono schizoide di “No Wound” (uno dei due bonus della versione in vinile) decreta che la benzina è bastata per l’intero viaggio di ritorno, al di là delle pur legittime perplessità di rito. Chiedere di più è inutile. E lo sarà anche la prossima volta, quando toccherà ai nuovi New Folk Implosion.
01/12/2013