Da dove viene, davvero, Anders Trentemøller? Una domanda retorica solo in apparenza, quella che sorge alla luce dell'ascolto del terzo lavoro solista di un producer che è sempre più restrittivo definire tale. Perché questo ancora giovane folletto danese, apparso sulle scene sei anni fa come funambolico portabandiera di un nuovo modo d'intendere la minimal ed evolutosi sempre più verso una dimensione di commistione sonora indecifrabile quanto appetibile, pare non riuscire a fare a meno di spiazzare e sorprendere. Perché se debutti infilando il cuore laddove i laptop l'hanno da troppo tempo rapito, poi azzecchi uno dei remix più visionari dei tuoi tempi - “What Is Else There?” dei Röyksopp che è di fatto più nota nella sua versione che in quella originale – poi ancora cavi dal cilindro un sophomore tra oscurità e cameretta come “Into The Great Wide Yonder” e chiudi il cerchio aprendoti a una moltitudine di linguaggi senza cadere una volta, lo status di extraterrestre arriva da sé.
Ma procediamo con ordine. Che al buon Anders l'universo minimal-techno in cui già s'era buttato con cuore e testa rifiutando ogni cliché stesse stretto lo s'era capito ben presto: era bastato di fatto quel “Chronicles” in cui raccoglieva remix dai mondi più diversi, arrivato a nemmeno un anno da un esordio da standing ovation come “The Last Resort”. Tre anni fa la conferma definitiva, e ora “Lost”, ovvero un ulteriore passo oltre, se possibile uno specchio ancor più variopinto dell'instabile e poliedrica anima musicale del danese. Che stavolta ha voluto fare le cose in grande, chiamando a sé una miriade di ospiti di livello internazionale e cavando fuori un po' il suo “Random Access Memories”, uno di quei dischi che pesca ovunque, ma non assomiglia a nulla e a nessuno, che omaggia senza scadere nel citazionismo. Una parade scintillante dove il musicista diviene tale in tutto e per tutto, abbandonando in definitiva il ruolo del producer e quello del dj, sostituendo i suoni organici delle tastiere agli scarni trip del laptop e offrendo una visione a trecentosessanta gradi dell'apparato emotivo, prima ancora che di quello tecnico. Elettronica dai mille gusti direttamente dal cuore, insomma.
“The Dream” apre e lo stupore è puro eufemismo, dolce e languida ballad crepuscolare con i Low al completo a offrire le loro suggestioni in slow-motion, brezza fresca ma anche cullante torpore fra tocchi penetranti e bagliori in crescendo. Un “sogno” che sfuma idealmente nella dance pastorale di “Gravity”, passaggio a nord-ovest dalle parti di un Devendra Banhart contagiato dagli elettrodi – non a caso alla voce c'è Jana Hunter in versione Lower Dens, per poi condensarsi nei pattern footwork-oriented dell'irresistibile singolo di lancio "Never Stop Running", battezzato da Jonny Pierce dei Drums. Su un sentiero più lussureggiante Marie Fisker guida in un terreno che avrebbe fatto la fortuna degli ultimi Massive Attack nel tramonto analogico di “Candy Tongue”, la cui notte si identifica più avanti nella ninna-nanna lunare di “Come Undone”, che torna a guardare alla sensualità dei Novanta americani dando spazio questa volta a Kazu Makino dei Blonde Redhead. La delicatezza è la prima dote di questo (ennesimo) “nuovo” Trentemøller, che esalta anche quando decide di sfoggiare i lati più muscolari del suo sound: questo avviene sotto forma di mantra spettrali, come la marcia metallica “Still On Fire”, l'ipnosi post-industriale di “Morphine” e l'oscura ebm di “Deceive” in compartecipazione con Sune Rose Wagner, metà dei Raveonettes, ma anche di tese cavalcate ad alta velocità quali l'arabesco technoide di “Constantinople” e la corsa vorace di "River Of Life", in combutta con le tinte shoegaze dei Ghost Society.
E se questo non bastasse, all'appello mancano i due autentici capolavori del disco: l'effimera “Trails” che parte opprimente per poi dispiegarsi in grovigli melodici à-la-Four Tet, e l'evanescente congedo di “Hazed”, un sogno lucido fatto di ombre, chiaroscuri, scintillii e stratificazioni in intermittenza armonica. E nella coda nascosta da qualche minuto di silenzio di quest'ultimo episodio, un pianoforte detonato da casa infestata sembra voler riproporre l'arcano iniziale: da dove viene, veramente, questo curioso fuoriclasse dell'elettronica odierna? Una domanda a cui non basta certo qualche nota biografica e un'interessantissima intervista su influenze e passioni a fornire risposta. Una domanda a cui forse risposta è giusto non vi sia, affinché l'incantesimo di cui “Lost” rappresenta l'odierno vertice possa continuare a stupirci, ancora e ancora, negli anni a venire.
28/09/2013