Non c'è verso di sfuggirgli, assieme all'r&b è ormai coppia fissa, habitué quasi irrinunciabile tanto nei piani alti del panorama indipendente (non soltanto dalle major discografiche, ma anche da latitudine e colore della pelle), quanto ai vertici delle classifiche. Se non vive una nuova epoca d'oro nella considerazione di critica e pubblico, beh, poco gli manca: maliardo e seduttore, il funk, in tutte le sue declinazioni e letture, è tra i principali ispiratori musicali delle ultime due-tre stagioni, con un'abilità nell'influenzare e nel diffondersi attraverso scene e ambienti che ha dell'incredibile. Una fontana apparentemente inestinguibile da cui abbeverarsi, insomma: il qui presente “Inji” dimostra che le possibilità di poter dire la propria all'interno di un filone espressivo così ben rappresentato e redditizio sono lungi dall'essersi esaurite.
Vero è che da uno come Sam Eastgate era difficile aspettarsi qualcosa di allineato a standard e consuetudini. Lui, che è stato il frontman di una delle band più imprevedibili e folli a livello internazionale, quei Late Of The Pier che con il solo “Fantasy Black Channel” hanno fatto terra bruciata attorno a sé, distinguendosi per audacia e originalità, non poteva proprio permettersi nella sua avventura in solitaria di mettersi in coda e raccattare le ultime briciole rimaste. Certo, di quell'esperienza, purtroppo conclusasi nell'esclusività di quell'unico album (e posteriori singoli sparsi), e con la tragica fine del batterista Ross Dawson a essere sopraggiunta qualche mese fa, rimane ben poca traccia: tempi, mire e persona sono inesorabilmente mutati, e la lucida alchimia che sottintendeva la firma LOTP traeva forza da una fierissima collettività che adesso semplicemente non può più sussistere. Ciò non significa che il nostro prete losangelino (così recita il suo nuovo moniker) non abbia mantenuto intatti lo smalto e la vibrante obliquità di una volta. Laddove attraverso la propria band riscriveva e personalizzava new wave e derivati in un caleidoscopico gioco di specchi, a questo giro è appunto il funk a essere cannibalizzato con la consueta vorace curiosità, in una girandola impazzita di colori e commistioni che tengono altissimo il tenore sperimentale del talento di Eastgate.
Diviso tra più brevi esperimenti strumentali e canzoni fatte e finite, nelle quali proporre sotto nuove vesti, più sensuali e sinuose, il guizzante timbro vocale dell'autore, “Inji” è album sempre sgusciante e imprevedibile, tanto inventivo nell'uso del ritmo quanto alla bisogna arrendevole ai propri impulsi più chilly, desideroso di trarre il meglio da ogni riferimento sfruttato, da ogni scelta messa in campo.
Chitarre, bassi (praticamente onnipresenti, com'era lecito attendersi), sintetizzatori, espedienti produttivi sempre tesi a esaltare l'aspetto più pungente e aspro delle composizioni, sono dunque gli ingredienti di una tra le più sfaccettate ricette sonore dell'annata in corso, che non ha timore di proporsi anche nelle sue lievi incompiutezze, di svelare manifestamente che di margine per perfezionarsi ve n'è, e in abbondanza.
In fondo, al caro LA Priest, interessa presentarsi in questo modo, in tutta la sua impagabile e sfrontata imprendibilità: poco importa quindi se pur intriganti bozzetti strumentali si privino consciamente di una spinta vocale e rimangano sospesi a mezz'aria, privi del propellente sufficiente a condurli fino in fondo senza fatica (l'electro atmosferica di “Gene Washes With New Arm”, la disco virata hypna di “Lorry Park”, con bizzarri campionamenti vocali ad accentuare la monotonia di fondo). Che sventagli impavido tutta la sua carica sensuale, impastando costrutti princeani in una lasciva slow-jam tutta gorgoglii di basso e suggestive linee melodiche (l'iniziale “Occasion”), oppure che punti a smuovere le platee, proponendosi come nuova regina delle discoteche più alternative, Eastgate fa presto a mascherare i pochi difetti del suo debutto, rivelandosi scrittore di spessore, così come intrigante beatmaker. La lunga “Party Zute / Learning To Love” in tal senso illustra il Nostro al massimo del suo talento de-compositivo, in otto minuti e mezzo che trattano la materia funk con una libertà d'approccio assoluta, risputandola sotto forma di suite mutante che ai suoi estremi reca tratti dell'indietronica anni 00 e dell'electro-house più moderata. Anche in panni più minimali vi è parecchio da apprezzare: la dream-dance di “Night Train”, trasportata verso litorali pop da un tracciato canoro che rimanda tanto al Jay Kay dei tempi d'oro, fa presto a mietere le sue vittime, a rapire con la forza di una lucidità ritmica che in tanti vorrebbero avere a propria disposizione.
Poi ci si può divertire a prendere i Wild Beasts altezza “Smother” e corredarli di un voluttuoso, frizzante impianto tastieristico, atto di suo a mimare i tratti di certa exotica più psichedelica e stralunata. Altrimenti, si può esporre senza timori il proprio lato più debosciato e “slabbrato”, estremizzando tendenze chill sparse un po' in tutto il disco e lasciandole confluire nel delirante dispiegarsi di “A Good Sign”, in cui la fantasiosità nella gestione di strumenti e voce pare traghettare Eastgate a una versione 2.0 dei Yeasayer di “Odd Blood”. Quale che sia il bersaglio da colpire, difficilmente verrà mancato. Se poi saranno ottenuti i dieci punti, quello è tutto un altro paio di maniche: anche così, in questa imbarcata in solitaria c'è tanto per cui appassionarsi. Come primo sermone, il nostro prete se l'è cavata più che degnamente.
03/09/2015