Ce l’avevano messa tutta, gli irlandesi Pugwash nel loro ultimo album “Play This Intimately (As If Among Friends)”, non solo avevano utilizzato i mitici studi di registrazione dei Kinks (i Konk Studios) e interpellato un maestro della produzione come Guy Massey, ma avevano coinvolto perfino un cast stellare di ospiti: Andy Partridge, Ray Davies, Jeff Lynne, Neil Hannon (con il quale Thomas Walsh ha condiviso il progetto Duckworth Lewis Method).
Purtroppo, lo stress alimentato dalla laboriosa messa in opera del disco, e la seguente frustrazione dovuta al mancato riscontro di critica e pubblico, hanno spento gli entusiasmi, provocando una rottura tra Thomas Walsh e la band, quest’ultima liquidata con una frettolosa mail di commiato.
C’è voluto del tempo per ricucire l’amicizia con Joey, Tosh e Shaun, quello che invece non è stato possibile rimettere insieme è stato il sodalizio artistico, l’irlandese ha quindi deciso di ripristinare la vecchia consuetudine di utilizzare il nome Pugwash coinvolgendo musicisti occasionali e vecchi amici d’avventura. “Silverlake” non è comunque un vero e proprio album solista, il musicista ha trovato infatti nell’ex-Jellyfish Jason Falkner (nonché collaboratore di Beck, Air e Brendan Benson) la spalla perfetta per questo leggiadro album pop.
Ancora una volta Walsh non rinuncia alle esplicite citazioni dei suoi idoli, mettendo in gioco anche un’altra passione, quella per i fumetti e i film della Disney: la copertina infatti è stata disegnata da Steve Loter, famoso designer del team della casa d’animazione americana, nonché fan dei Pugwash.
Con un sound più diretto e più vicino a certe soluzioni power-pop, “Silverlake “ è l’ennesima raccolta di perfect-pop-song che nessuno troverà mai nelle classifiche di vendita, un po’ la stessa sorte degli Xtc post- "English Settlement", anche se il mood lirico delle canzoni è figlio più delle geniali intuizioni post-beatlesiane della Electric Light Orchestra.
Infatti Jeff Lynne sarebbe orgoglioso di “Perfect Summer” o di “What Are You Like”, due delle canzoni più radiofoniche mai incise dai Pugwash dai tempi di “It’s Nice To Be Nice”, ed è oltremodo evidente che Walsh miri questa volta a brani meno avventurosi, con un suono più compresso e meno dettagliato, che in converso renda il tutto più accattivante e immediato.
Nonostante l’elenco di citazioni e richiami sia sempre quello ricorrente, la struttura lirica tipicamente retrò dei Pugwash è ormai consolidata e nel tempo ha assunto i contorni di uno stile personale. In verità, quello che non manca anche in questo settimo album sono il talento e l’ispirazione, al punto che sorge il dubbio che il musicista irlandese si sia fino ad ora affidato a un’immagine poco seducente, non riuscendo a catturare né il naturale pubblico della musica commerciale, né gli appassionati dell’indie-pop. Forse l’estrema pulizia armonica è fuori moda, anche se questa volta tutto è più grezzo e istintivo, al punto che “Easier Done Than Said” sembra sbucare da un album new wave anni 80 e “Without You” suona come un qualsiasi brano indie-pop.
Come era prevedibile, è nelle ballate che Walsh riesce ancora a graffiare e lasciare maggiormente il segno, a partire dalla languida “Better Than Nothing At All”, che rafforza il legame con un altro mito dell’autore, ovvero Brian Wilson, per poi continuare con il chamber-pop alla Beatles di “Sunshine True”, concludendo con il pregevole folk-pop acustico di “Such A Shame”, un brano che fa impallidire gran parte delle ultime sortite liriche di Liam o Noel Gallagher.
Il citazionismo stilistico è comunque molto simile al fantasioso e ironico progetto collaterale degli Xtc sotto le mentite spoglie di Dukes Of Stratosphear, ed è quindi ovvio che anche Partridge e soci finiscano per essere esplicitamente citati nel brioso e divertente funk’n’roll di “Why Do I”, o nella psichedelia in slow-motion di “Aurtarch”: un brano caratterizzato anche da un inatteso e selvaggio assolo di chitarra.
Grazie a Jason Falkner, il musicista irlandese ha sviluppato un gusto per la semplificazione, che se da un versante ha smorzato in parte quel gusto per la raffinatezza (“Make It Yourself”), ha introdotto nel repertorio una serie di canzoni amabili che rischiano di regalargli la notorietà finora negata (“Everyone Knows That You’re Mine”).
“Silverlake” non è forse all’altezza di gioiellini come “Jollity” o “Eleven Modern Antiquities”, ma darà ancora una volta ai fan più di un motivo d’interesse e di discussione, nell’attesa che la dea bendata rivolga finalmente lo sguardo verso uno dei più eleganti autori pop degli ultimi anni.
14/12/2017