Si prosegue nella confusionaria discografia di Mark Kozelek, stavolta tornando a tappezzerie di arpeggi e accordi ripetuti ad nauseam e poi improvvisamente variati di tonalità. Cioè, in pratica, il suo modus di sempre rinsecchito, stilizzato e portato all’estremo (e allo stremo). Si può dire che questo disco omonimo (ancora doppio) sia in molti sensi la versione intimista del predecessore “Common As Light And Love” (2017), ma che sulla confezione sia scritto “Sun Kil Moon” o “Mark Kozelek”, o anche una sigla interamente nuova, la sostanza non cambia: è di nuovo uno dei capricci sempre più pantagruelici dell’autore. In questo caso la riscoperta del proprio nome (di solito, nella prassi di Kozelek, circoscritta alle uscite minori) indica perlopiù genericità, carta bianca, un pretesto per sfogarsi come e più di prima senza briglie e criteri.
Ancora un’apertura d’opera incentrata sulla terra natia, “This Is My Town”, funge come mai prima da manifesto programmatico: rosari di armonici di chitarra e un flusso canoro un po’ screziato, un po’ modulato in canto, un po’ chiacchierato, parlottato e infine declamato, ma anche cori senza parole con funzione - evidentissima - di spezzare la piattezza monologante. Già in “soli” sette minuti di durata, la canzone tende a stroppiare. Fortunatamente, tale contenutezza è mantenuta anche da “Live In Chicago”, un riff acustico con un che di madrigalesco, la rarefatta e fantasmagorica “Sublime”, il loop continuo accordato come un’arpa e il recitato da trance zombie di “Good Nostalgia”, e “Young Riddick Bowe”, quasi gospel non fosse per il torrente di parole ad ammorbarla.
E poi vengono i pezzi lunghi, cioè le note dolenti. In “The Banjo Song” (tredici minuti), chitarra battente scandita come una pendola e un lamento Neil Young-iano che sa anche d’involontariamente comico, si riscopre ancora un qualche talento di cantautore. Idem per i nove minuti di “I Cried During Wall Street”, pur affossata da tonnellate di frasi e annotazioni di Kozelek (persino, in chiusa, data e ora di registrazione della canzone). Nella camomilla psichedelica in tempo di valzer di “The Mark Kozelek Museum” (dieci minuti) l’egotismo dell’autore semplicemente straripa (persino un tributo a Steve Howe alla chitarra, ovviamente sottolineato da una logorroica didascalia canora), così come nella dedica chilometrica di “My Love For You Is Undying” (dodici minuti), davvero insostenibile.
Registrato in parte in camera d’hotel, si porta dietro infatti un’immediatezza non sterile nella costruzione dei giri armonici, figli anche della competenza d’un mastro folk del suo calibro, una purezza che, comunque, si sperde a furia di ripetizioni, fino a ossessionare, invece d’estasiare. E’ un po’ la metafora del suo prodigio involontario (o deliberatamente volontario?): come dare nuove entusiasmanti accezioni a quel che si dice pesantezza. Davvero difficile considerarlo una raccolta di variegate “Desolation Row”, anche se l’intento pare spesso quello; alla meglio è un diario musicato, alla peggio un incrocio di ridicolo album di folksinger egocentrico, un sofisticato audiolibro - ammesso che si voglia ascoltare un’ora e mezza di vicende e pensieri personali di Kozelek - e un ottimo sonnifero. Questi fiumi di parole, aneddoti, impressioni sono il corrispettivo di pedanti note a pie' di pagina d’un bel romanzo scritto in precedenza (i primi gioielli a nome Red House Painters), o il fatidico, fastidioso papello di postille contrattuali da far esaminare al proprio avvocato.
16/05/2018
Cd 1
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