Mark Kozelek ha sempre dichiarato, senza alcun giro di parole, che la sigla Sun Kil Moon e l’etichetta Caldo Verde sono a tutti gli effetti delle imprese che devono fruttare. Solo così si spiega come mai, a partire da due discrete prosecuzioni del verbo Red House Painters (“Ghosts Of The Great Highway” del 2003 e “April”, 2008), il nostro abbia pensato di fidelizzare il cliente a suon di uscite a cataratta, da dischi che saltano di palo in frasca (in solitaria o in line-up allargate, elettrificati o elettronici etc.), alle raccolte di cover, perfino di standard pop, agli album dal vivo al limite del bootleg, alle collaborazioni (ultima per cronologia quella con Jesu, 2016). Kozelek ha perfezionato un metodo industriale, una gamma di prodotti, un marchio di fabbrica che si fonda sulla fascinazione automatica della melanconia (titoli e copertine) e su poche idee, spesso poco più di ciò che gli passa per la testa al momento.
Come proseguire tale fidelizzazione? Approntando finalmente un vero doppio cd - dopo tanti fasulli doppi cd composti dall’album originale e un disco bonus - con un bel titolo apocalittico efficacemente allungato: “Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood”.
Per oltre due ore l’ascolto raschia via quel poco di musicale che ancora persisteva in “Benji” (2014) e “Universal Themes” (2015), e - paradosso che ha del geniale - mette a fuoco solo alcuni dei monologhi più sfocati, logorroici e monotoni di sempre. Il mostro tentacolare appare superficialmente dapprima con “God Bless Ohio”, 10 minuti ancora nel suo stile più o meno riconoscibile (strofa folk tirata per le lunghe e refrain che compare senza precisa scansione), una promenade (anti-)Springsteen-iana di magagne della terra natia.
Gli ossessionanti 11 minuti di “Philadelphia Cop” sono un rap declamato col suo stile canoro ormai scazzato e strascicato, un effetto comico aumentato dal più banale dei giri di pianola e da un siparietto teatrale (un dialogo rubato tra una groupie e un intellettuale annoiato). Ancora più hip-hop, anche se spezzata da parentesi di folktronica, è “The Highway Song”, riflessioni-fiume sull’autostrada, anche se a preoccupare e affascinare è la sua recente passione per i serial killer (già testata in “Richard Ramirez” da “Benji”): e la preoccupazione per la sua psiche aumenta nei 9 minuti di “Lone Star”, i 12 minuti di “Stranger Than Paradise” (solo basso e congas), gli 8 minuti di “Butch Lullaby”, flussi di coscienza maniacali punteggiati da paurosi cambi d’umore.
L’effetto scenico più toccante sta in “Chili Lemon Peanuts”, con basso funk e una tastiera a mezza voce, che nella seconda parte diventa antiemotiva e impersonale quanto un segnale acustico, mentre Kozelek continua a autoconfessarsi, quasi svanendo. Probabilmente la migliore è però la recitazione quasi Nick Cave di “Bergen To Trondheim” (con applausi di sottofondo).
Sono, a loro modo, meccanismi free-form di cui solo lui conosce il funzionamento, e con cui tenta di connettersi al tempo presente (Trump, morti di Bowie e Prince, e in generale il 2016 luttuoso, Facebook, Hollywood, nostalgie canaglie etc.), anche se la seconda parte va per il leggero se non il ridicolo, da “Vague Rock Song” a “Seventies Tv Show Theme Song”. In realtà fa sgorgare come non mai l’interiorità a ruota libera, o meglio alla rinfusa. Quest’inconsapevole fusione di impressionismo ed espressionismo dal suono rachitico (Steve Shelley infaticabile) potrebbe essere una nuova forma di protesta civile, ma che sia un ascolto che necessita di tanta attenzione è dire niente. Bisogna davvero essere innamorati di lui, non del musicista ma del suo livore di mezz’età, del suo egocentrismo, della noia, l’oblio, l’indole all’osservazione puerile, i capricci assortiti d’osservatore naif. Tutto in dosi doppie. Se si hanno i requisiti, è un’esperienza esilarante, elettrizzante persino.
22/02/2017
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