Con “Coup De Grace", Miles Kane continua nel suo disperato e goffo scimmiottamento del classic-rock albionico. Che lo si consideri un simpatico stakanovista o solo uno scarso mestierante, la cosa è ormai lampante: siamo giunti al livello più basso che una formula dal genere possa toccare, anche come semplice intrattenimento.
Il chitarrista del Merseyside, più o meno da quando ha avuto la malsana idea di reinventarsi cantautore, si è sempre immaginato un novello Paul Weller, con tanto di caschetto, chiodo, accento bello carico e perenne sfrontatezza da mod irriducibile. A essere grave, però, non è tanto la sua mancanza di carisma, quanto l’imbarazzante miseria dei suoi spunti musicali. Non c’è una melodia che emerga dalla ostinata piattezza di queste pseudo-cavalcate brit-rock, una linea vocale che non venga tarpata dal fastidioso crooning nasale di Kane, una ballad che non possa definirsi semplicemente uno scherzo di cattivo gusto (si salva di striscio solo la finale “Shavambacu”). In compenso, però, c’è del fuzz ovunque, condimento obbligatorio per ogni riff di chitarra, che più che ricordare i gloriosi fasti dei T. Rex, rammenta di quella molesta acidità di stomaco che accompagna certe digestioni impegnative.
Nel 2006, gli Arctic Monkeys scelsero come B-side del fortunato singolo "Leave Before The Lights Come On" una cover dei Little Flames, band nella quale, al tempo, Miles militava come chitarrista. Da allora, ciò che davvero ha tenuto in piedi la carriera di Kane è stato sempre il suo furbo gravitare attorno alla sfera delle Scimmie di Sheffield (sua la chitarra in “505”), culminato, come tutti sanno, nei due album in combo con Alex Turner a nome The Last Shadow Puppets. “Coup De Grace” non concede dubbi - nel caso ancora ce ne fossero - su chi fosse l’anello debole tra i due: lasciato in balìa delle sue sole idee, Miles Kane si dimostra incapace di concepire qualcosa di differente da una stanca riproposizione dei più triti cliché del rock inglese. E ora basta, per favore.
26/08/2018