In Amazonia – il progetto
Il minimalismo ritmico delle avanguardie storiche via King Crimson (“Discipline”, al pari dei quattro capitoli a nome “Lark's Tongues In Aspic”), le orchestrazioni colte di Frank Zappa (“Peaches en Regalia”, “Little Umbrellas”), l'organizzazione spaziale e tonale (talvolta atonale) del suono ad opera di Samla Mammas Manna, Thinking Plague e Yugen, l'ascendenza stravinskiana degli Yes di “Close To The Edge”, suggestioni cinematografiche care a Ornette Coleman, la passionalità sanguigna e lirica di un canto esteso capace di rinverdire il teatro-voce da Artaud in poi, suggestioni esotiche care a Debussy e Satie. Il tutto con un suono spaventosamente attuale.
Questo è l'art rock di questo disco, titolato a Isildurs Bane e Peter Hammill, ma di diritto ascrivibile, per la portata dei contributi, anche a Pat Mastelotto e alla grandissima Karin Nakagawa, suonatrice di koto a 25 corde, oltre che apprezzata cantante, attrice e artista visiva.
Un disco destinato a rimanere una pietra miliare di un “non genere” che sempre più diviene meta ambita per chi da seminati facili di classificazione vuole smarcarsi.
“In Amazonia” non può essere considerato come un semplice disco, è un progetto.
Finanziato dal Municipio di Gouveia e dall'Art Rock Fest della stessa cittadina portoghese. Questo ne chiarifica anche la ricchezza della tavolozza, di certo non usuale per la band svedese, tantomeno per l'illuminato cantore di Bath.
Le sei tracce del disco sono state mixate da Charlie Storm, ben noto per le sue produzioni di Roxette, In Flames, Steve Jansen. Le composizioni sono accreditate ai soli Mats Johansson, tastierista degli Isildurs e produttore del dischetto (stampato in cd e in vinile verde o nero) e Peter Hammill, che principalmente è responsabile delle linee vocali e delle liriche, ma che pure ha avuto un ruolo nella definizione delle strutture e degli arrangiamenti delle tracce.
In breve, Johansson ha dipinto scenari dal potente valore immaginifico e definiti all'inverosimile di cesello, mentre Hammill si è prestato in qualità di attore principale, cantando tutto con passione, carattere, vigore, come in presa diretta (e probabilmente così è stato), aggiungendo effetti e cori che sono diventati un trademark in particolar modo da "Consequences" (2012) in poi.
I cosiddetti comprimari sono così diligenti e creativi nel suono da rendere superflua ogni definizione a loro carico.
La musica ha un carattere imponente, sinfonico in un'ottica strettamente contemporanea, ma è al tempo stesso perfettamente a fuoco, asciutta, non c'è alcun tracciato di “esibizione tecnica”, nonostante il grande impegno richiesto ai musicisti tutti e alla sezione percussiva tutta.
In questo l'alchimia col nome Hammill è evidente, giacché da sempre questi sono tratti distintivi del suo mondo musicale, perennemente in bilico tra massimalismo e minimalismo.
Oggettivamente più a fuoco di qualsiasi collaborazione passata degli Isildurs, dato che questo può di gran lunga essere considerato il loro parto migliore, assieme al naïf ma genuino disco d'esordio “Sagan Om Den Irländska Älgen” (1984) e “Mind Volume 1” (1997), affresco post-modernista dai raffinati toni ambientali e da vibrante soundtrack. Oggettivamente più riuscito formalmente di ogni disco a nome Van Der Graaf Generator, dai tempi del lontano “Pawn Hearts” (1971), dopo il quale le trame del Generatore in musica per eccellenza si sono fatte più discontinue (se si escludono le produzioni assai dinamiche di “The Quiet Zone” e di “A Grounding In Numbers”).
Questo ovviamente porterà fortuna tanto al combo di Scandinavia, a cui va il plauso più grande degli ultimi anni, assieme a quello che certo riservano pure i Dungen, ma anche a Hammill, che con questo disco si consacra egli stesso “immortale”, al pari dei protagonisti della science-fiction ultra-umana e ultra-moderna del magnifico brano “Still Life” (che pure ha dato vita alla pubblicazione dal novembre 2018, di una serie stampata, dal titolo “The Amorphous Androgynous & Peter Hammill – We Persuade Ourself We Are Immortal”).
La voce del cantore di “voce estesa” per eccellenza (e di diritto anche in qualità di “interprete” nel senso più antico, passionale del termine), assieme a Tim Buckley e Diamanda Galás, ha armoniche davvero fresche, rigogliose. Trova nei registri più acuti e nei passaggi in un curatissimo falsettone rinforzato i suoi momenti di maggiore pregio, si assesta su toni più slabbrati ma sanguigni nel registro grave e medio, ma è capace di un'iperbolica gestione di intervalli e quando si fa “coro”, diviene “mille di sé”.
Il parallelo più diretto è quanto fatto dal cantante inglese sull'affascinante e a tratti geniale (nella sola versione “Ciné”, dischetto unico), in "..All that Might Have Been..." (2014), nei brani più riusciti e non a caso, quelli cantati in voce piena, su registro stregonesco e con dovizia di cori in un continuo rimando di proiezioni interiori, a mo' di madrigale: "Washed Up", "Alien Clock" e "Drifting Through".
Sì, perché finalmente, dopo anni in cui alle uniche esibizioni dal vivo è spettato il tributo di temerario rivoluzionatore di brani altrimenti incisi in qualità di crooner (“Like Veronica”, “Bubble”, “The Mercy”, “That Wasn't What I Said”, per rimanere al repertorio dai tardi 90 ad oggi), Hammill è tornato a cantare “a gran voce”, cosa peraltro ben rappresentata dall'ultimo, prezioso cofanetto di 8 cd, appartenenti all'ultimo, assai lucido tour europeo (della cui data milanese si è pure discusso su OndaRock, data che su cd ha regalato, anche, una magnifica “Modern”). Da citare come in occasione del tour del 2017, al cantore sia stato pure consegnato il Premio Ciampi, in data 17 novembre 2017, che ha fatto eco alla consegna di una laurea honoris causa, presso il Conservatorio Nicolini di Piacenza, il 16 gennaio 2016, attribuitagli per “la instancabile ricerca della perfezione sia nella stesura musicale che e soprattutto nella scrittura delle liriche”.
Mai, forse, come questa volta l'interprete ha avuto cura nel preparare l'esecuzione e renderla al suo pubblico nella migliore resa possibile e difatti, cosa rara per lui, ben pochi sono qui gli acciacchi strumentali, ancor meno quelli vocali.
Una raccolta monumentale, probabilmente l'ultima, a dispetto del titolo, “Not Yet Not Now” a coprire un arco di tempo di pubblicazioni avvenute tra il 1969 e il 2017 e che include ben 98 brani diversi (+ 3 ghost track dal tour giapponese), pubblicata il 29 marzo (data non casuale, in barba a una Brexit apertamente e ripetutamente osteggiata su Twitter dal cantante) e con per sua detta e “senza falsa modestia”, alcune versioni “outstanding”. Probabilmente non le migliori di sempre, per carità, ma è un sincero piacere veder scorrere tutti assieme titoli come “Faculty X”, “Traintime”, “Patience”, “The Lie”, “Modern”, “Time Heals”, “My Room”, “La Rossa”, “The Siren Song”, “Still Life”, “Refugees”, “Easy To Slip Away”, “The Comet, The Course, The Tail”, “Sitting Targets”, “House With No Door”, il teatro brechtiano di “Friday Afternoon”, “Too Many Of My Yesterdays”, “Labour Of Love”, le sempre più corrusche “Comfortable”, “Skin”, “Ship Of Fools”, il taglio wave di “Lizard Play” e “Losing Faith In Words”, tra quelli più a fuoco nell'esecuzione, nella resa passionale e la lista merita trattazione a sé, decisamente ben meno parca.
In Amazonia – il disco
Ma “In Amazonia”?
A scanso di equivoci, il dischetto di 40 minuti tondi, non contiene tracce trascurabili, ma due sono i capolavori: “Before You Know It” e “The Day Is Done”.
La prima si apre con suoni di elettronica roboante e preziosi soundscape, subito seguiti da uno scalpiccio di marimba (superlativo su tutto il disco Klas Assarsson) e koto (la già citata Nakagawa). Hammill di suo sembra evocare provenendo da un altro dove. Al secondo minuto il brano esplode in un wall of sound che ben conosce i Crimson di “The Power To Believe”, ma anche i Tool e quella gemma assoluta che fu “Tonk” dal quarto parto di David Cross (non a caso con Fripp e Mr. Hammill). Il basso di Axel Croné è puro granito. La voce incontra un lieve vocodere un magnifico coro a sostenere toni acuti che presto si fanno tenorili, diretti, violenti. L'elettronica di tastiere diviene centrale nella capacità di disegnare sonorità ultraterrene, le percussioni si muovono in un florilegio di poliritmie assortite. Le chitarre disegnano geometrie laterali. Breve sospensione con mellotron in evidenza, il ripartire della marcia ritmica mentre i cori aleggiano minacciosi, fino ad arrestarsi su un rapidissimo arpeggiato di koto a schiantarsi su un gong e poi didjeridoo e le corde dello strumento asiatico di Nakagawa letteralmente sottoposte a rasoiate sulla loro intera lunghezza. Una meraviglia di quasi otto minuti che sembrano i classici 3-4 di un singolo radiofonico, una potenza indescrivibile, figlia di Scandinavia, verbo euro-colto, ma anche Estremo Oriente. Il verbo rock più diretto, a incontrare l'avanguardia sonica più virulenta. Magnifico. Il testo è un continuo urlare “aprite i vostri occhi” (cit. “Open Your Eyes” da “Nadir's Big Chance”, anno 1975). Sfido chiunque a fare tanto in ambito art-rock, da qui a breve.
“The Day Is Done”, è un gioiello puro di avant songwriting, retto su pianoforte/tastiere, elettronica imponente, appena sotto la soglia della magniloquenza, ricami di percussioni in qualità di colore.
Protagonista assoluta, la voce, mai più ispirata. Una ballata dalla melodia cristallina e riconoscibile tra mille, dalle armonie impervie, ma non tali da creare disagio alcuno a chi ascolta. Tutto suona carezzevole. Il canto sa essere passionale, sanguigno come quello del tanto amato “Skeletons Of Songs” (bootleg per eccellenza di Hammill e sorta di “manifesto live” rimasto inedito solo in parte, dacché diversi estratti sono sui remaster dei classici degli anni 70), quanto “alleggerito” nei paranasali e dunque con risuonatori alti a garantire eleganza d'emissione.
“Whatever happens?”, canta dolente l'autore del testo, bellissimo, che nel finale (dal minuto 4'56" a 5'27"), su “stolen memories”, tocca punte di coinvolgimento emotivo disarmante, da pura standing ovation. Il lavoro di Johansson è incantevole. Il tastierista da pari suo, dona continue sospensioni, una sorprendente apertura spaziale al minuto 3'30", che prelude a una sorta di dolente valzer. Quando il brano sembra concluso, il tema principale torna in forma diversa a sorprendere per intimità e lucentezza cristallina.
È incredibile quanto questo brano non solo sembra sia stato scritto dal solo Hammill, ma anche da lui suonato al piano, con la consueta foga nel centellinare i suoi appoggi pianistici in accordi quasi “martellati”, qui, con imponenza lirica.
Tra gli altri episodi, certamente “Under The Current” è impagabile. Perché? Qui il mosaico strumentale si fa davvero corale. Il brano è anche quello più spiccatamente “avant” ed è degno di plauso senza dubbio. L'apertura è affidata alle chitarre di Samuel Hällkvist, in chiave classico-minimalista a ricordare da vicino gli Stick Men, quanto la League of Crafty Guitarists. Il brulichio è presto affidato al koto e poi entra la voce di Hammill, qui ritmico-misterica, impegnata in ardui controtempi, resi con enorme naturalezza. Al minuto 2'11", compaiono i consueti sfasamenti usati dal cantante come tratto distintivo (voce in fase e in controfase, gioco inaugurato con l'album “The Future Now” del 1978 e che ha trovato la sua massima espressione in “White Dot” da “Singularity” del 2006), a generare un bellissimo gioco di specchi su cui immediatamente e in modo cronometrico la batteria di Mastelotto, riconoscibile tra mille (e qui è il caso di tributare al percussionista britannico l'attuale leadership globale in quanto a capacità tecniche, inventive, soniche), si innesta con rapidissime quartine pari allo scorrere di un treno sui binari.
La tromba di Luca Calabrese (già con Steve Jansen e Terry Bozzio) disegna meravigliosi scenari che ricordano il Miles di “Amandla” e quella delizia di colonna sonora che è “The Naked Lunch”, a firma Howard Shore/Ornette Coleman e con la London Philharmonic Orchestra (1992).
Gli archi (Liesbeth Lambrecht in testa), stridono in gemiti conclusivi, che a cavallo di soundscape assortiti, avvicinano di molto “Neuköln” (Eno/Bowie).
I dieci minuti di “This Is Where”, presentano il gioco di stratificazione orchestrale più ardito e vanno a definire diversi quadri, più o meno compiuti, ma comunque in una tessitura di grande effetto. L'incipit sembra provenire direttamente da “Discipline” dei Crimson, cosa che qui è più di una semplice citazione. A guidare chitarre, brulichio di percussioni e koto, la voce di Hammill, che si fa puro ritmo. Poi un'apertura in perfetto stile zappiano, una vera e propria meraviglia di “chamber rock”, dove archi e fiati si sovrappongono e si alternano in un'organizzazione spaziale certo geometrica, ma anche assai lirica. Le percussioni inceppano al minuto 2'22" in una violenta frattura ritmica, sottolineata teatralmente dal cantante con maestria assoluta, “back in the daylight”, a preludere la citazione del titolo dell'albume in contrappunto serrato di Axel Croné al clarinetto basso.
Parte da qui un vero e proprio jungle-prog-mantra, guidato da tutti gli strumenti fatti elettronica (voce inclusa), eccezion fatta per il koto. I suoni di chitarra avvicinano il miglior Trey Gunn nei suoi fraseggi spezzati e strozzati, quasi a emulare suoni di uccelli e tutto su scale esatonali. I continui cambi di tempo rappresentano per Hammill, impegnato dal quinto minuto in poi in un vero e proprio gioco di intervalli in perfetto zeuhl style (Magma, ma anche e soprattutto la grandissima Dagmar Krause in “Living In The Heart Of The Beast”), non meno che inquieto e con continuo saliscendi d'ottava, cori ipergravi e da contralto. Puro brivido. Davvero l'impressione è di vedere decuplicati da esercizio ritmico e atonale, alcuni passaggi di “A Plague Of Lighthouse Keepers”. La corsa si arresta, tutto si fa quieto e lirico, come al contempo ricco di suggestioni etniche e folate di mellotron come a disegnare paesaggi nordici. La tensione torna a crescere, ma in modo meno convincente. Il brano riprende quota, infine, con un serratissimo dialogo tra sax, su due canali, a scoprirne le meccaniche in modo magistrale (chi ricorda Mats Gustafsson di “Hydros One”?).
Degno di nota anche (cito comunque “Aguirre”, in quanto brano appena più debole del lotto, ma con belle melodie e un canto elegantissimo, più “pop-oriented”) il crescendo conclusivo di “This Bird Has Flown”, a riprendere come in una sorta di incubo la sezione principale del primo brano del lotto ed esasperarla con le splendide screziature di tromba di Calabrese (qui in chiave free jazz di tradizione ESP-Disk). Il tutto mentre i cori stregati di Hammill (a toccare un inquieto do di testa), l'elettronica, ritmiche pulsanti e qui davvero tribali, didjeridoo, archi graffiati sul ponticello, disegnano una sorta di mostruoso deja-vu, una sorta di piccolo altare totemico universale.
Questo è “In Amazonia”, eccentrico, cosmopolita, lirico affresco dalla moltitudine di colori, disegnati da mente e corpo.
Formazione:
Peter Hammill – voci
Katrine Amsler – tastiere ed elettronica
Klas Assarsson – marimba, vibrafono e percussioni
Luca Calabrese – tromba
Axel Croné – basso elettrico e fiati
Samuel Hällkvist – chitarra elettrica
Mats Johansson – tastiere
Liesbeth Lambrecht – violino e viola
Kjell Severinsson – batteria e percussioni
Con:
Pat Mastelotto – percussioni elettroniche
Xerxes Andrén – batteria e percussioni
Zhazira Ukeyeva – violino
Mette Gerdle – violino
22/06/2019