Sesto album del progetto, nato ormai 15 anni fa, del trevigiano Nicola Manzan. Dopo gli esordi miniaturizzati, proposti in una originale declinazione del grindcore, ci si è spostati verso formati e stili sempre più inusuali. L’ingresso del tentacolare batterista Alessandro Vagnoni, stabilmente in formazione dal 2015, ha dato nuova energia agli arrangiamenti dopo il curioso esperimento di “Uno Bianca”. Come quell’opera, anche questo “Bancarotta Morale” si presta a essere fruito con le note degli autori di fianco, o quantomeno la necessaria documentazione che aiuti a contestualizzare, interpretare e godere al massimo le composizioni.
Il concept-album si concentra su storie di deplorevole umanità, suddividendosi in quattro parti più un prologo e una lunghissima conclusione. “Il Truffatore” racconta, attraverso brevi brani strumentali a base di violino, batteria e bass pedal, la storia del torinese Manuele Bruni, un criminale che trova una redenzione tardiva ma comunque sorprendente. Musicalmente, le successive tre vicende sono raccontate con un simile stile musicale, un bislacco folk meccanico, supersonico e miniaturizzato, come se un'orchestrina di paese posseduta da metallari.
La sezione “La Banda Przyssawka” narra della banda polacca formata dai fratelli Oleg e Calin Yaroslaw e da due cugini, Assan e Harbin Imeri. La loro vicenda ha un sapore grottesco e, a suo modo, inquadra un contrappasso dantesco, culminante nella terremotante percussività de "Il Baro".
“La Famiglia Subiot”, di Badia Polesine, è protagonista di un quintetto di ansiogeni brani, alcuni al limite dell'epilettico, come "La Cognata", atti a raccontarne l’infame raggiro ai danni di una donna con grave ritardo mentale. L’inquietante vita della tedesca “Sophie Unschuldig”, avvenente pluriomicida dal talento criminale, rimane sempre una narrazione strumentale, ma in un formato meno frammentato: invece di un gruppetto di brani, una composizione di cinque minuti scarsi, assai più mesta e sofferente, dove il violino si scopre lirico.
La musica cambia, è il caso di dire, con la lunga “Fuga, Consapevolezza, Redenzione”, di ben 19 minuti. Qui torna il Manzan di formazione classica, che improvvisa all’organo e quindi completa con archi, sintetizzatore, harmonium e campionamenti. Alle vignette storte e nervose che occupano la prima metà dell’album si contrappone un flusso sonoro ambient e post-rock assai più disteso, che riconduce finalmente a un’esperienza d’ascolto che può essere anche autonoma, emancipata dalla documentazione di supporto, e che richiama lo splendido "Afraid To Dance". È l’ideale futuro dell’esperienza Bologna Violenta, che, abbandonate le chitarre e il grindcore di un tempo, potrebbe ormai riguardare simili studi estesi di classica contemporanea, resi vibranti di vita dall’instabilità emotiva che Manzan ha, da sempre, inserito in questo suo progetto.
Plauso a parte per il violino, suonato con eclettismo e implacabile energia. Il voto si riferisce all'album fruito insieme alle note di cronaca, consultabili anche sul profilo Bandcamp della band.
31/05/2020