Il nuovo album di William Basinski segue di pochi mesi il progetto (stranamente) ritmato e kitsch che il compositore e musicista statunitense ha editato con l’effigie Sparkle Division insieme a Preston Wendel, da lungo tempo suo fidato collaboratore. La musica di Basinski, in un certo senso, ha sempre avuto un afflato religioso, sin dal requiem per le vittime della tragedia dell'11 settembre, “The Disintegration Loops”.
Su questa strada si pone “Lamentations”, da intendere come versione per loop del concetto religioso di sofferenza inconciliabile. Dodici sinfonie per loop strazianti, nelle quali la sofferenza talvolta sfiora il sublime nel canto disperato su sottofondo elettronico di “O, My Daughter, O, My Sorrow”, dove per metà dei sette minuti di durata i suoni sono posti ai margini dell'udibilità, inseriti in uno schema discendente scuro e acquoso di indistinguibile strumentazione. Un dramma orchestrale miniaturizzato, affondato in trame flemmatiche e vellutate, dipinto su ampie fasce di tempo. La voce, che eterea aleggia nel pezzo, funge da parafulmine, cristallizzando l’estremo sentimento che avvolge la linea compositiva.
Il progetto, nella sua totalità, parte dal recupero di alcune sequenze rimaste nel cassetto per più di quarant’anni, erette su frammenti orchestrali registrati in serie, statiche interruzioni e sfocate profondità molto vicine alle magistrali sonorità austere dell’epocale “The Disintegration Loops”. Tali manipolazioni sonore si mostrano con un approccio più espansivo e giocoso, fievolmente meno severo rispetto al passato.
Il disegno ideato da Basinski è un vero e proprio viaggio siderale verso il nucleo di un vortice che custodisce all’interno della propria spirale morbidi e paradossali appigli, offerti per affondare con serenità nel vuoto del dolore.
L’astratto percorso passa dalla gotica traccia di apertura "For Whom The Bell Tolls", solenne e oscuro presagio dark-ambient, alla delicatezza dei mutevoli frammenti melodici di "The Wheel Of Fortune". Gran parte della raccolta si libra tra questi due grandi riferimenti. Schegge di suoni catturati e trattati come volatili frame, sospesi nell’etere, riprodotti fotogramma per fotogramma, si proiettano in una dimensione alterata, dove sia esseri viventi che artificiali giacciono sonnacchiosi sotto una pioggia battente. L'ampiezza informe di “Passio” posa in primo piano il crepitio scintillante del decadimento, mentre "Transfiguration” alterna accenni sibilanti che perforano torbide nuvole, quasi similari al silenzio dell’Aldilà.
Poi spuntano dal mazzo tre pezzi caratterizzati da un ossimoro sonoro di tempestosa pacatezza, formato da udibili voci femminili, fuse su toni quasi operistici, che si rivelano, in definitiva, un vero e proprio urlo di dolore.
Gli undici minuti di “All These Too, I, I Love” e il dark-drone di “Please, This Shit Has Got To Stop” distribuiscono brevi e ripetuti tagli di melodramma vocale, dando il senso di un vecchio disco operistico, in gommalacca, che salta sul grammofono all’alba dei tempi.
Il resto delle tracce si mostra più lineare. L’alterazione in loop dei suoi vecchi nastri è una cupa ellissi che trova il climax nella ripetitività, da toni morbidi e smorzati (“Paradise Lost”), a gesti molto più spettacolari, seppur elegiaci (“Tear Vial”).
La sequenza finale (“Fin”) è un'affascinante cesellatura degli storici “Disintegration Loops”: appena un minuto e mezzo, costruito su una minuscola e trascinata nota che suona sull’interferenza di uno strisciante microfono, mentre l’intera opera di Basinski, nel suo insieme, s’inchina con grazia. Sbalorditivo.
27/11/2020