Quando un motivetto orecchiabile spopola nelle classifiche di mezzo mondo e i musicisti sono baciati da innegabile avvenenza fisica diventa automaticamente impossibile svincolarli da fastidiosi stereotipi, a maggior ragione se in quarant'anni di carriera il singolo di debutto rimane anche il più grande successo commerciale raggiunto. Chi segue gli A-ha dai tempi di "Take On Me" sa però bene che la loro traiettoria artistica è una delle più affascinanti e fraintese dell'intero showbiz e che la sfilza di luoghi comuni collezionati in bacheca non la racconta esatta su cinque decadi di alto coefficiente qualitativo. Per chi invece si sta approcciando solo adesso e in colpevole ritardo al ricco catalogo dei norvegesi, ecco allora che l'undicesimo album "True North" può rappresentare a livello sonoro un compendio esaustivo, e magari aiutare a far luce sull'effettivo valore di un terzetto che con le etichette di boyband, one-hit-wonder e teen idol ha da condividere al massimo l'alone lasciato sulle pareti dai vecchi poster appesi in camera o tutt'al più l'invidiabile look giovanile sfoggiato ben oltre la soglia degli "anta". Allora furono necessarie sedici settimane e un'avanguardistica tecnica in rotoscoping per consegnare al mito un videoclip giudicato poi come il terzo migliore di sempre (alle spalle di "Thriller" di Michael Jackson e "Sledgehammer" di Peter Gabriel), stavolta sono bastate quarantotto ore per confezionare un full-length a suo modo altrettanto innovativo, con il quale Morten Harket e soci si spogliano definitivamente dei costumi in bianco e nero da eroi dei fumetti per confermarsi raffinatissimi autori dai vulnerabili colori umani.
Come documentato dall'amico fotografo Stian Andersen nel film omonimo che ne accompagna l'uscita, "True North" è stato registrato nel novembre 2021 in soli due giorni nella sala concerti Svømmehallen di Bodø, in collaborazione con la locale orchestra Arctic Philarmonic (diretta da Anders Eljas) che in passato si era già guadagnata apprezzamenti al fianco di Philip Glass e Anneli Drecker dei Bel Canto. L'idea alla base di un live in studio dai toni simili all'"Mtv Unplugged–Summer Solstice" del 2017 è rispettare un limite di tempo pre-stabilito entro il quale il progetto audio sia da considerarsi l'obiettivo e la pellicola uno strumento al suo servizio.
Sei delle dodici canzoni in scaletta nascono dalla penna del chitarrista Paul Waaktaar-Savoy, che dopo una battaglia contro i media per la corretta ortografia del proprio nome, ha optato per la versione anglofona in luogo dell'originale "Pål" aggiungendo alla firma tradizionale anche il cognome della moglie. Le altre sei sono opera invece del tastierista Magne Furuholmen, che ha presentato alla stampa il lavoro come "una lettera dall'estremo Nord della Norvegia" dove - aggiungiamo noi - mittente e destinatario vengono spesso a coincidere.
Morten Harket è dunque estraneo al processo creativo, ma accetta senza troppi capricci un ruolo apparentemente ai margini per non minare la serenità ritrovata dopo anni di dissidi interni. Il suo falsetto malinconico dall'estensione pressoché illimitata resta però l'arma più affilata a disposizione del gruppo per dar voce a un concept che medita sull'interazione tra uomo e natura: il quadro post-pandemia è piuttosto sconfortante e l'ambiente in cui viviamo viene messo di continuo a repentaglio dai pericoli derivanti dal surriscaldamento globale. In tal senso, il delicato schlager d'apertura "I'm In", lanciato sul mercato come primo singolo, offre uno scoglio cui aggrapparsi al riparo dalle mareggiate, evocate dallo scrosciare di onde (comune all'intro di molte delle tracce) che, se affrontate insieme, possono fare meno paura ("Give in, don't give up/ whatever you want or need I'm in, begin"). Sette anni dopo Cast In Steel l'auspicio è recuperare il nostro giusto posto nell'ordine delle cose, e tanto calore da una regione così fredda pesa come una dichiarazione d'amore e sostegno incondizionato.
Il secondo brano in scaletta, "Hunter In The Hills", insiste sul tema con strutture ritmiche però totalmente agli antipodi: inizio jazzato per solo basso e batteria (affidata qui a Per Hillestad, che aveva già rimpolpato la line-up in occasione di "West Of The Sun East Of The Moon", "Memorial Beach" e "Minor Sky Major Earth") prima che facciano irruzione archi da big band in stile anni Venti. Influenze da Frank Sinatra e Burt Bacharach sono il leit-motiv anche di "As If", fresca di nomina a terzo singolo in virtù di un andazzo tanto scherzoso quanto snervante e di un ritornello che si candida già a radio-tormentone.
La struggente "Between The Halo And The Horn" ("Le tue difese nel giorno nel giudizio sono prive di senso/ rose e spine, come siamo feriti") riporta la navigazione in acque più intime con melodiosi cambi di rotta.
Non tutto gira alla perfezione, ma ciò che appaga l'orecchio è il fatto che in ogni canzone riecheggia, con taglio adeguatamente aggiornato, un tratto distintivo di ogni diversa era geologica vissuta dalla band. Furuholmen e Waaktaar-Savoy riescono a maneggiare abilmente sia l'afflato rétro che il gusto contemporaneo, mentre le interpretazioni angeliche dell'ammiraglio Harket si elevano al di là degli arrangiamenti, ragion per cui ad esempio la title track "True North" non sembra una pallida imitazione del capolavoro del 1988 "Stay On These Roads" ma riesce a brillare di personalità propria, seppur ne citi in maniera evidente più di una nota. I synth scintillanti che negli anni Ottanta avevano assicurato agli A-ha gloria imperitura rivivono invece nel midtempo "Forest For The Trees" tra arpeggi di chitarra e gli immancabili archi che iniettano un po' di drammaticità in crescendo, in "Make Me Understand" la fanno poi da padroni con divertenti spazzolate elettroniche alla Top Of The Pops, lontane in verità dalle chiassose laccature British e per questo ancor più gradite in un copione essenzialmente adulto e maturo. La distanza tra "Hunting High And Low" e "True North" è d'altronde superiore ai tremila e passa chilometri che intercorrono tra Londra e il silenzio glaciale di Bodø, così nel grazioso scioglilingua corale "Bluest Of Blue" (ai violini Madeleine Ossum) e nella dolce ballata dal messaggio speranzoso "You Have What It Takes" ogni tentazione d'alta quota viene volutamente dissimulata in eleganti partiture chamber-pop, malgrado il Dna da hit potenziali. Bellissima anche "Summer Rain", dalla quale piovono educate gocce di nostalgia: è un'altra perla di Furuholmen, che a dispetto del titolo richiama atmosfere autunnali e certe produzioni acustiche di inizio anni Novanta, con buona alternanza corde/tastiere e Harket che sventola le ottave più basse.
Meno appariscenti ma niente affatto trascurabili, infine, "Bumblebee", nobilitata da accorte improvvisazioni jazz (e da versi toccanti con dedica di Waaktaar-Savoy alla sorella Tonje), e il sognante valzer per clarinetto di chiusura "Oh My Word", che cala il sipario su un disco coerente, ambizioso e passionale.
Se continuano così non ammaineranno mai bandiera, unico neo forse la sperticata sequenza dei brani ma è un adorabile difetto di fabbrica a tutela di una libertà espressiva che se ne infischia delle mode. Quel vecchio giochino in voga un tempo di sfottere gli A-ha per questioni onomatopeiche legate al nome non faceva più ridere nemmeno i detrattori, figuriamoci adesso che per la prima volta sembrano veleggiare tutti e tre nella stessa direzione. Bentornati.
19/11/2022