I made an album to go with the book
They say they miss the old Drake girl don’t tempt me
Ogni album di Drake è un evento, a prescindere dal giudizio estetico che si può avere sulla musica del cantante e rapper canadese. Drake non è solo uno degli artisti più ascoltati al mondo negli ultimi vent'anni ma è anche, in compagnia di pochi altri, uno dei personaggi pop che ha segnato un nuovo modo di intendere la musica e, soprattutto, un tipo diverso di popstar. Il nuovo "For All The Dogs" non è da meno, spuntato direttamente in cima alla Top Album Global di Spotify, dove al momento è il terzo artista più ascoltato al mondo con oltre 83 milioni di ascoltatori mensili.
Abbandonata la direzione house di "Honestly Nevermind", già archiviata con la collaborazione con 21 Savage di "Her Loss", Drake ritorna a quell'amalgama trap-pop-r'n'b che ha contribuito a trasformare in uno degli stili dominanti dell'ultimo decennio: riecco “old Drake”, quindi, come annunciato dalla frase riportata in apertura e che compare sul sito dedicato al suo nuovo libro, ideale companion cartaceo dell’album. Nei 23 brani in 84 minuti della scaletta, però, quel sound è declinato in una serie di variazioni, raramente ispirate.
L'ascolto procede per conferme e autocitazioni, ingolosito dai nomi delle varie ospitate e da qualche frase di Drake che risalta nel flusso di versi o, più spesso, per un dettaglio delle produzioni scintillanti e opulente. "Virginia Beach" apre con un campionamento chipmunk soul su un ritmo trap, sfondo di un rap dialogato dei suoi, ma subito la direzione sembra incerta: "Amen" si ammorbidisce fino al gospel, "Calling For You" sembra finire la benzina a metà e si rivitalizza con un beat-switch provvidenziale. L'impressione che i brani proseguano ben oltre il necessario è confermata dalla trap bombastica di "Fear Of Heights", che pure dura soli due minuti e mezzo.
All'altezza di "Daylight" c'è un sussulto, un Drake più aggressivo, dal flow insolitamente dinamico, e anche le successive "First Person Shooter" (con J. Cole) e "IDGAF" (insieme a Yeat) tengono alta l'attenzione dell'ascoltatore, anche grazie alle ospitate. Quando Drake torna in solitaria al microfono, però, la noia trova spazio e neanche i beat ricercati e iper-prodotti possono fare il miracolo: non è un rapper né un cantante che possa, oggi, sostenere i brani da sé, soprattutto ora che il suo stile è risaputo.
Le più malinconiche “7969 Santa”, “Bahamas Promises” e “Tried Our Best” spezzano ogni entusiasmo, rallentando il fluire dei brani e annegando in melliflue paturnie emotive, ancora meno interessanti considerando che provengono da un uomo che viaggia ormai verso la quarantina.
Non bastasse, il tempo dell’ascoltatore è impiegato anche per interludi fuori posto come “Screw The World”, un boom-bap deformato pensato come tributo a Dj Screw, che magari si poteva posizionare in continuità con una delle canzoni dai beat relativamente più canonici come “8am in Charlotte”, il brano migliore dell’intero album e l’unico che, con il sound indiscutibilmente vintage conferito dal tocco inconfondibile di Conductor Williams, irradia calore ed emozione.
Se gli ospiti aiutano, poi, alle volte sembrano dare contributi semplicemente pigri, come Chief Keef in “All The Parties”, un brano che rallenta fino a galleggiare nei synth per un tempo ingiustificato, o Bad Bunny in “Gently” e Lil Yachty in “Another Late Night”, così ci si deve affidare alla relativamente meno quotata Sexxy Red, l’anima della festosa “Rich Baby Daddy”, nella quale Drake funge a lungo da comprimario e, quando torna protagonista, drena ogni entusiasmo per ripiombare nel solito canto lamentoso.
La sola campagna promozionale che ha anticipato la pubblicazione meriterebbe un approfondimento, quantomeno dal punto di vista del music marketing. Gli annunci, i ritardi, i contrasti con i fan e la necessità di non sovrapporsi alla nuova musica di altri rapper ha dimostrato quanto sia imponente la produzione e difficoltoso l’arrivo sul mercato di un nuovo album di Drake. La copertina disegnata dal figlio, svelata anche questa con un’apposita invenzione comunicativa, rappresenta una capra (in inglese goat) e, nel gergo hip-hop, identificherebbe Drake come il greatest of all times: un’autocelebrazione di se stessi che ben presenta l’intero album, un lungo e compiaciuto monumento a un dominio sul pop-rap contemporaneo che, seppur conservato dal punto di vista dei numeri, sembra ormai creativamente perduto. Il futuro del pop-rap, che è stato sulla punta delle dita di Drake per alcuni anni, sembra puntare altrove e questo ottavo album, più che immaginare il sound di domani, guarda al (proprio) passato con un’ammirazione per se stessi che confina con l’onanismo.
22/10/2023