Due milioni e mezzo di ascoltatori mensili non sono una cosa da tutti. Il risultato Spotify dei londinesi Sleep Token è un tot più significativo di quanto possano vantare “big” alternative come Fontaines D.C. (900mila, ma erano un milione), IDLES (1,2 M), Weyes Blood (1,8 M). Certo, non sono i 26 milioni di Mitski, i 3,4 dei Royal Blood e nemmeno (o non ancora) i 2,8 dei Big Thief, ma si tratta di una cifra ragguardevole per una band che esce su un’etichetta finlandese sussidiaria di Universal, nota finora prevalentemente in ambito doom-death, power- e folk-metal.
La consistenza della fanbase non è l’unico tratto peculiare della band britannica. La sua commistione di metal (-core, djent, post-) ed elettronica/ambient – e finanche trap e r’n’b – ha indubbiamente del coraggioso. L’aspetto che più sorprende della sua formula, giunta quest’anno al terzo Lp, è tuttavia la sua sfacciata affettazione pop. Molto più che ad altri incursori tritageneri post-djent, a valutare dalle canzoni, gli Sleep Token somigliano a degli Imagine Dragons intamarriti. “Non erano già abbastanza tamarri gli originali?”, dite? Beh, non deve essere questa l’impressione dei tanti – la larga parte del loro pubblico – che hanno iniziato a seguire la band con l’ultimo “Take Me Back To Eden”, uscito a maggio.
A stregare deve essere innanzitutto il sound. Ipercompresso, digitale senza evocare echi cyber-, suona tanto lezioso e monocromo quanto sia possibile per un ensemble di maniscalchi prestati alla musica da spot Tim. Insomma, irresistibile, se uno apprezza il contrasto.
Anche il trucco&parrucco gioca una parte. Come gli altri campioni di ascolti metallici degli ultimi anni, gli svedesi Ghost, anche i componenti degli Sleep Token adottano pseudonimi (“Vessel” e “II”) e si esibiscono mascherati (i giorni scorsi, i forum di appassionati pullulavano di cosplay realizzati per Halloween). Benché i nomi dei membri siano noti, le loro identità rimangono nebulose, e l’avvincente lore costruita attorno alla musica della band ha contribuito ad aumentarne il fascino enigmatico. In quello che è un probabile rimando (innocuo) alle teorie QAnon, ciascun elemento rappresenta un potenziale indizio (breadcrumb) nella direzione dello svelamento di una verità recondita, e ogni brano è visto come un token, un frammento o offerta, dedicato all’oscura presenza Sleep.
L’approccio stilisticamente eclettico fa il resto. Enfatizzando la dinamica, pezzi come “Granite” e “Take Me Back To Eden” passano dalla calma alla tempesta con una costruzione da perfetto cliché soft/loud, ma congiungendo elementi anomali: dall’ambient/soul al pop-rap alle sonorità electro, fino a sfociare in scariche di chitarroni diroccate da coltri sintetiche. “The Summoning”, secondo singolo dell’album nonché brano più ascoltato, calca maggiormente la mano sui suoni estremi e sfodera scream vocals accanto a raffiche metalcore, ma anche paludi chillwave e occasionali svisate digital fusion.
E che osservare della conclusiva “Euclid”, che parte come piano ballad, scopre armonie vocali moltiplicate tecnologicamente e si reinventa in chiave arena rock grazie all’ennesima esplosione chitarra-basso-batteria? Se c’è qualcosa che non manca alla band, è la spavalderia negli accostamenti. Sorprende alquanto, allora, che a latitare sia spesso la varietà dei toni.
Se fino al precedente “This Place Will Become Your Tomb” il loro stomp-metal poteva in alcuni brani ricordare un mix riuscito di Katatonia e Hozier, con “Take Me Back To Eden” si vira piuttosto in direzione Linkin Park. Senza purtroppo alcun guizzo alla Mike Shinoda a salvare il flow pseudo-trap di Leo Faulkner/Vessel dalla stucchevolezza e dal torpore in “Aqua Regia” o “Ascensionism”.
La tracklist fa di tutto per sbandierare la propria versatilità in termini di generi e livelli di intensità: com’è possibile, allora, che i brani annoino come continue e poco avventurose rideclinazioni di uno stesso schema, di uno stesso suono? Senz’altro molto lo fa la produzione, affidata a Carl Brown, già affermato in campo metalcore e del tutto votato a mettere in risalto un unico aspetto del sound: la sua muscolarità. Ma non c’è solo questo. È lo spettro creativo ad apparire assottigliato. L’ambizione para-progressive dei primi due album pare accantonata, e a rimpiazzare il gusto per l’esplorazione sembra essere giunto un suo simulacro assai più trito: un’ostentazione di poliedricità che ricalca sempre i medesimi percorsi emotivi. C’è chi ci sguazza: senz’altro molti dei fan storici, nuovi adepti venuti su a metalcore/djent ipervitaminizzato, ma forse anche semplicemente ascoltatori più casual in cerca di workout music particolarmente catartica.
Per i più curiosi fra costoro e anche per chi, invece, storcesse il naso verso questo specifico approdo, il contesto attuale ha fortunatamente molto altro da offrire. Tanto i virtuosismi mathcore/flamenco/Edm-trap dei Polyphia che il sorprendente chill-metal di Jakub Żytecki, così come la fusion rocambolesca degli Arch Echo e il folle chiptune/synth/djent di Algorythm o Pryapisme mostrano efficacemente come i territori di confine fra (post?)djent e altri universi musicali siano in questi anni più fertili che mai.
16/11/2023