E’ un periodo particolarmente attivo per Umberto Maria Giardini. Dopo aver riesumato nel 2020, per lo spazio di un disco e di un tour celebrativo, lo storico moniker Moltheni, nel 2024 ha dato vita a ben due progetti paralleli completamente diversi fra loro. Il primo ha preso le sembianze di un Ep diffuso a proprio nome, “Dio come alibi”, tre tracce a tinte alt-folk con decisivi ricami jazz e psych, registrato con il supporto di Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, il secondo dai tratti inequivocabilmente hard-psych-rock, “Selva Oscura”.
Soltanto chi non conosce a fondo la storia e il percorso artistico di Umberto può sorprendersi al cospetto di un nuovo lavoro tanto ruvido. Parliamo di un cantautore, e di un musicista, dotato di un eclettismo che va ben oltre quanto le sue ballate più malinconiche e introspettive possano far immaginare. Basti riprendere alcuni passaggi dall’ottimo “Forma Mentis”, risalente al 2019, oppure molti frangenti contenuti nei primi dischi distribuiti a nome Moltheni, a cavallo fra i due millenni, canzoni sviluppate con in testa le scariche adrenaliniche degli Afterhours della seconda metà degli anni Novanta.
Il nuovo progetto Selva Oscura identifica una vera e propria rock band di quattro elementi, formata da Giardini con Enrico Blanzieri (chitarre) e i fratelli Michele e Filippo Dallamagnana, rispettivamente basso e batteria. Il quartetto genera un suono iper-saturo, ronzante, diretto, sul quale si innesta la voce potente di Giardini, che si conferma a proprio agio in qualsiasi contesto.
Apre i giochi “Mercurio”, presentando subito un mood che si posiziona a metà strada fra Soundgarden e Afterhours, con riff heavy a delineare una forma di stoner intinto nel grunge. Le cinque tracce di “Selva Oscura”, pur non possedendo una matrice canonicamente metal, si presentano ricche di spigoli ed elettricità, elementi confermati nelle successive “Oceano di nessuno” e “Ipernotte”, dove in mezzo al caos chitarristico emerge netta la melodia, sottolineata dai caratteristici passaggi vocali di Umberto.
La parte finale si spinge verso territori a maggior coefficente lisergico, fra l’evocativa “Tu che domini”, il momento più alto del disco, con tanto di assolo di chitarra molto anni Settanta, e l’ipnotico misticismo di “Thai” a lasciar immaginare ipotetici scenari a venire. Rispolverando vecchie magliette di Kvelertak e Soundgarden.
08/01/2025