C’è una luminosità gentile che attraversa “Whatever Time Will Bring”: tenue, mai invadente, come certi pomeriggi di fine estate. Ma non è la nostalgia per le stagioni passate ad animare il terzo album dei norvegesi Local Store: più che a un passatismo revivalistico, l'orizzonte del disco sembra dar voce a una sintonia interiore con il suono di un'epoca: gli anni Settanta musicali, visti non come repertorio da citare, ma come paesaggio ancora abitabile, vivo, attuale. Forse perfino necessario.
Attorno alla voce e alla chitarra di Bjørn Klakegg — sessantasettenne già mente dei neocanterburiani Needlepoint - si muove una band coesa e versatile, formata da Mattias Krohn Nielsen (chitarre, tastiere), Magnus Tveten (basso, basso synth) e Tore Ljøkelsøy (batteria, percussioni), tutti di una generazione successiva. La loro musica si muove con disinvoltura tra accenti familiari e riferimenti più elusivi: nei brani si incontrano la delicatezza lussureggiante della West Coast e del Mellow Gold anni Settanta, ma anche artigianato prog, vena cantautorale e il gusto un po' indie da band casalinga.
Facile perdersi nel gioco dei rimandi, ma si tratta solo di un primo strato: “Daniel” e “Ready For A Leap” intrecciano arpeggi acustici in un modo che non dispiacerebbe ai Genesis più pastorali; e gli echi di Kevin Ayers sono impliciti ma ricorrenti, tanto nel carattere ondivago delle melodie quanto nella placidità solo apparente dei brani. “Love”, come altri brani, può evocare la frugalità di Donovan, ma è soprattutto il timbro di Cat Stevens a tornare ripetutamente alla mente attraveso la voce gentile e colloquiale di Klakegg.
Su un piano più analitico, si nota un lavoro di accordi discreto ma ingegnoso: una scrittura che non stupisce con effetti, ma scivola di lato, accompagnando direzioni impreviste. “How You Want Me To Be” gioca su progressioni solari tutte in maggiore, costruendo un clima che disorienta con gentilezza. “Core In A Peach” parte da un ostinato cullante e lo lascia sospingere da una brezza trasognata, prima di aprirsi su un bridge che disegna una curva armonica inaspettata, come un pensiero che si sposta altrove.
La libertà compositiva è ampia e pervasiva, ma si rivela a piccoli colpi. In “From Scratch” l’inganno è sottile: un folk-pop perfetto che dà l'illusione di una prevedibile confortevolezza, e invece trasporta sottilmente verso tortuosità inattese.
Le notevoli abilità chitarristiche di Klakegg non rubano mai la scena, ma la arricchiscono: fraseggi melodici fantasiosi, memorabili senza ostentazione, sono sostenuti da un’attenzione timbrica che lascia il segno - come nel finale di “Dead Wood”, dove l'assolo raggiante trova il sostegno di un drumming incalzante che prende le forme di un groove quasi Madchester. O ancora nella già citata “Core In A Peach”, che dà alla chitarra lo spazio per librarsi in uno slancio spensierato e malinconico, coerente col clima dell'album.
Non è un disco che cerca di spiazzare, ma nemmeno uno che si accontenta di suonare bene. Le canzoni danno l’illusione della prevedibilità, e invece si aprono, deviano, trovano strade personali. È un equilibrio raro: quello tra immediatezza e complessità, tra mestiere e ispirazione.
Il titolo, "Whatever Time Will Bring", non è una dichiarazione d’intenti ma un riflesso: di un’attitudine quieta, ma non arrendevole. Come se la scrittura di Klakegg avesse smesso da tempo di voler forzare le cose, preferendo osservarle scorrere - e distillarne, senza fretta, qualcosa che resta.
28/04/2025