Follia, irriverenza, caos e dissonanza sono termini ormai consueti nel panorama del rock alternativo, ma quello che i Lost Crowns propongono nel loro secondo album “The Heart Is In The Body”, giunto a sei anni di distanza dall’esordio, è un pop-rock dalle mutevoli sembianze sperimentali e alternative.
L’art-rock della band è un suono multistrato a base di colte armonie vocali, chitarre suadenti o aspre e disarmoniche, tastiere che ora spezzano il ritmo ora lo dominano con insolenza, e poliritmie che sfuggono al loro ruolo di catalizzare l’ascolto. E’ una potente sferzata di massimalismo sonoro in cui spadroneggiano strumenti non tipicamente rock, in gran parte appartenenti alla tradizione europea e non solo: theremin, sassofono, clarinetto, ghironda, fagotto, armonium, flauto, violino, sitar, cornamusa, dulcimer, sega, campanelli, arpa.
Quella dei Lost Crows è una divagazione psicotica sui Gentle Giant, o se preferite una versione più malleabile dei Mothers Of Invention, di fronte alla quale si rischia di restare attoniti e terrorizzati. Supergruppo affiliato ai mitici Cardiacs, i Lost Crows di Richard Larcombe (già membro degli Stars In Battledress) pescano nelle lande del rock progressivo e dell’art-pop confondendo i Gentle Giant con gli Xtc nella fanciullesca e intenzionalmente goffa “Weaker Than Me”, scombussolano le pur ricercate geometrie di “Trout Mask Replica” per una sequenza di dissonanze arbitrarie e insolitamente viscerali nella rocambolesca e irritante “The Same Without”.
Sinceramente mi è difficile trovare una pop song più geniale di”Et Tu Brute”, quattro minuti e sedici secondi di scale armoniche improbabili, voci angeliche, cascate di riff pop che non trovano mai uno sbocco definitivo e fughe strumentali che piacerebbero a Frank Zappa, e questa è una delle ragioni che induce l’ascoltatore a non distogliere l’attenzione.
“The Heart Is In The Body” non è un disco con cui trastullarsi citando possibili influenze e richiami al passato (non mancano ma non sono basilari), queste otto deformi composizioni sono destinate a influenzare le prossime generazioni di rocker in opposition, ai quali spetterà contrastare la devastante prevedibilità della musica creata con l’intelligenza artificiale.
Dubito che gli estremisti dell’art-rock possano ignorare la grandezza e l’unicità di brani come “She Didn’t Want Me” o “Did Look A Fool”, dove l’atonalità del Canterbury-sound e del jazz-rock creano dei labirinti ritmici e melodici nei quali è facile perdersi (alla Art Bears per intenderci). Anche la poco indulgente incursione nel folk psichedelico di “O Alexander” è oltremodo straniante: la band resta in bilico tra follia e caos con una padronanza tecnica che trasforma l’orrore in bellezza.
I Lost Crowns non sono inclini a compromessi, già dalle prime note di “I Might Not”, un brano caratterizzato da continue e contigue mutazioni, non v’è traccia di eleganza estetica o di esibizionismo tecnico, anche se i musicisti sono tutti incredibilmente dotati, in particolar modo l’imprevedibile e diabolico batterista Keepsie. Per i Lost Crows tutto quello che funziona altrove è sapientemente vietato, e non illudano le meste note introduttive - quasi barocche e folk - di “A Sailor And His True Love”: i quasi dieci minuti della mini-suite giocano con armonie apparentemente semplici fino a sconvolgerne l’eventuale appeal, con una serie di variazioni sul tema che fanno della trasversalità la loro ragione d’essere, evocando perfino i Comus.
I Lost Crowns sono una delle band più originali e geniali che ascolterete quest'anno, ma nello stesso tempo anche la più disturbante e insulsa: non cercate motivi o giustificazioni per farvela piacere, non è necessario.
Il supergruppo art-prog si diletta con il caos e il rifiuto apparente della melodia fino a risultare estenuante: fiati, chitarre, ritmi, tastiere, annessi e connessi sembrano in preda a una implosione armonica che non conosce regole.
Incautamente, punto i miei cinque bit-coin sulla band, certo che quel che verrà dopo “The Heart Is In The Body” sarà ancor più devastante, e non mi sorprenderei se ascoltando in futuro queste otto composizioni, la sensazione non sarà quella di una surreale sinfonia a base di destrutturazione armonica e dissonanza, ma di una nuova forma di bellezza.
27/05/2025