I
Postcards sono una band centrale nella recente evoluzione della scena
dream-pop, avendo prodotto alcune fra le più belle pagine
dreamy degli anni Venti. Non è un caso che siano proprio loro ad aprire la narrazione di “
Music Diary”, il libro che ho scritto per Arcana insieme al collega
Alessio Belli. Il loro secondo album, “
The Good Soldier”, venne pubblicato esattamente al cambio di decennio, il 3 gennaio del 2020, un attimo prima che la pandemia bloccasse tutto e tutti per mesi, con catastrofiche ricadute sul comparto della musica live, fermo per un periodo lunghissimo. L’anno successivo un altro ottimo disco, “
After The Fire, Before The End”, mentre i termini “
shoegaze” e “
nu-gaze” diventavano virali su TikTok fra le nuove generazioni, perfetta espressione della sensazione di disagio e spaesamento sempre più diffusa. Poi, dei Postcards abbiamo un po’ perso le tracce, anche perché la pubblicazione più recente, “In Parenthesis Vol. 1” venne diffusa esclusivamente via Bandcamp.
Nel 2025 il trio è pronto a ripartire con le nervose inquietudini di “I Stand Corrected”, sontuosa traccia che inaugura con piglio chitarristico “Ripe”, subito seguita da “Dust Bunnies”, il singolo che ha anticipato di qualche giorno l’album, una lunga lista di frustrazioni che derivano dal vivere in Libano, terra di conflitti, di cui dal punto di vista musicale continuiamo a conoscere ben poco.
Dalle evoluzioni musicali dei Postcards non è difficile percepire la quantità di giornate trascorse nelle loro camerette di Beirut a consumare dischi di
Slowdive,
Cocteau Twins e
Beach House, alla ricerca di una formula in grado di cristallizzare bellezza e fragilità, ma anche rabbia e disillusione, elementi che si respirano attraverso le loro composizioni. Una rabbia primordiale, tramandata per generazioni, risposta cruda e determinata ai tumulti che la regione continua a subire, temi che purtroppo restano di grande attualità, con il genocidio israeliano in corso a Gaza e gli attacchi sferrati da Israele verso il Libano meridionale.
I Postcards incanalano questa violenza nella propria musica, disegnando scenari onirici nei quali le chitarre intervengono come lame a tagliare la tela. “Ripe” nasce dal dolore, dall'incertezza, un disco di sfida, che miscela brutalità e vulnerabilità, rumore e melodia. Come un faro acceso nella nebbia, cerca (invano?) una possibile via d’uscita: titoli come “Ruins” e “Construction Site” hanno senz’altro un senso ancor più profondo se letti in quest’ottica.
C’è un fuoco che arde dentro le taglienti folate elettriche di “Poison”, che intendono rappresentare la medesima innocenza perduta ritratta nei primi lavori degli
U2, quel fuoco simbolicamente tratteggiato da diverse evoluzioni in crescendo. Altre sfaccettature del loro prisma musicale sono la sommessa poesia carica di pathos in “Wasteland Rose”, il lento, malinconico incedere di “Nine”, la più diretta e rotonda “Colorblind”, l’avvolgente abbraccio di “Angel”, la delicatezza jazz di “Dark Blue”, che chiude l’album con smisurata raffinatezza.
31/03/2025