Autore: Michael Azerrad
Titolo: American Indie – Dieci anni di rock underground
Editore: Arcana Edizioni
Pagine: 472
Prezzo: 25 euroCerto che il titolo originale era tutt'altra cosa: "Our band could be your life", citazione dai Minutemen di "Double Nickels On The Dime", perfetta per indicare l'alto grado di "transustanziazione" che la pratica del punk-rock chiedeva ai suoi adepti durante gli anni eroici. Anni in cui, per essere "veri" fino in fondo, non ci si limitava a suonare come si viveva, ma si arrivava a vivere come si suonava: e quel che si suonava era roba dura, magari difficile, ma sempre tanto travolgente da convincere figli di buona famiglia e impiegati di studi legali a barattare i propri promettenti futuri con un precario presente su qualche fatiscente tour bus (e senza nemmeno la sicurezza di un pasto per l'indomani...).
Vada pure per il più didascalico "American Indie", scelto dall'Arcana Edizioni per la traduzione italiana, ma a patto di non confonderlo con quel che per "indie" si intende ormai comunemente dalle parti di Mtv e dintorni. Ci tengono a farlo notare tanto l'autore Michael Azerrad (Rolling Stone, Spin) quanto il traduttore italiano Carlo Bordone (Il Mucchio), facendo riferimento rispettivamente alle uscite di "Nevermind" e "Is This It": dal 1991 al 2001 (anno della pubblicazione del volume negli Stati Uniti) il "fenomeno" indipendente ha assunto proporzioni impreviste, tracimando i propri recinti e arrivando a campeggiare sui magazine patinati, sostituendo poi al complesso concetto di "vita" quello più facilmente commerciabile di lifestyle.
Qui invece ci si occupa dei prodromi, della preistoria: del "pre-Nirvana" se preferite. E se la biografia-bibbia "Come As You Are" fu (perlomeno al tempo della sua prima stesura) la cronaca di una vittoria non soltanto per la band in questione, ma per un mondo intero che usciva allo scoperto dopo anni passati a ribollire nei sotterranei, ora Azerrad viaggia a ritroso, per testimoniare tante piccole sconfitte. Dopo aver raccontato dell'ultimo martire, quello definitivo, si torna indietro a riscoprire gli eroi dell'era a.C. (ante Cobain), convinti infine che "la battaglia è stata molto più divertente della vittoria": si assiste ai voli dei tanti piccoli Icaro che talvolta sfiorano il sole, altre volte non riescono a raggiungerlo, altre se ne tengono a debita distanza e altre ancora ne rimangono scottati. Il loro cantore li accompagna fin all'approdo su major e poi li abbandona al loro destino, spesso poco roseo.
L'esaustività, del resto, non sembra essere fra i primi obiettivi di Azerrad, che dalla sua cerchia esclude nomi importanti (su tutti i Bad Brains e i più volte citati Meat Puppets). Eppure le scelte hanno un senso preciso: le biografie delle singole band fanno da tasselli per un mosaico più ampio, che perlustra in lungo e in largo l'America indipendente degli anni 80.
Indulgendo spesso (anche troppo) nell'aneddotica per cavarne fuori l'epica, il libro fa la spola fra l'irriducibile stakanovismo degli Husker Du e il cazzeggio autolesionista dei Replacements, fra le rivendicazioni politicheggianti dei Fugazi o degli stessi Minutemen e l'indolenza collegiale dei Dinosaur Jr, dallo straight edge di Ian Mc Kaye alle ambizioni arty di Sonic Youth e Butthole Surfers, rifugiatisi nel punk-rock perché "non c'era spazio altrove"; dal celodurismo dei pionieri Black Flag alla naiveté infantile dei Beat Happening, posti non a caso agli antipodi di tutta la storia.
Intanto, a scorrere sullo sfondo sono le stesse figure chiave e la stessa mitologia: i fortunati, amati, odiati e talvolta invidiati cugini Rem, Jello Biafra nella parte del grande vecchio e John Lydon dei Public Image Limited in quella dello zio arcigno; lo spirito rivoluzionario dei Sixties che si avvicina e si allontana come un satellite in orbita; l'"International pop underground concert", tenutosi a Olympia nel 1991 come un grande ballo di fine anno.
È soprattutto a questa dimensione "movimentista" che si rivolgono i rimpianti e le nostalgie di Azerrad, esplicitati in un epilogo commovente e che ripaga da qualche autocompiacimento dimenticato nelle altre pagine. Non sono tanto la rigidità o la durezza dell'hardcore a far sentire la loro mancanza: è il senso di comunità, che quello stesso hardcore contribuì a tenere a battesimo. "Do it yourself" intesa come l'unica filosofia per chiunque la pensi diversamente dagli altri e abbia voglia di darsi da fare. E per un attimo solo, a volersela "cavare da soli" sembravano in tanti: diversi, eppure tutti insieme.