Quando Peter Jackson ha comunicato a Paul McCartney l’intenzione di rimettere mano alle 60 ore di riprese dalle quali è stato tratto il film "Let It Be" del 1970, il baronetto non l'ha presa benissimo. Al di là del dover riaprire la valigia dei ricordi di uno dei momenti più delicati dell'epopea del quartetto (quando il crollo era perennemente dietro l'angolo), Macca aveva timore che la rappresentazione delle dinamiche all'interno della band risultasse ancora una volta distorta o incompleta. Si è invece ricreduto quando ha osservato il risultato finale di "Get Back", un montaggio di otto ore complessive che il resto del mondo ha potuto vedere a partire dal 25 novembre in streaming. Jackson ha avuto accesso non soltanto alle 60 ore di girato, ma anche a 150 ore di materiale audio (molte delle quali ovviamente senza corrispettivo in video), e si è cimentato nella titanica impresa di recuperare tutto ciò che poteva essere propedeutico al racconto di una storia che secondo Michael Lindsay-Hogg (il regista originale di "Let It Be") aveva prevalentemente il sapore della disfatta. La ricerca di Jackson ruota intorno all'assunto che, pur essendo sicuramente vero che lo scioglimento dei Beatles era la notizia intorno alla quale costruire il film del 1970, poteva anche essere probabilmente vero che Lindsay-Hogg, nella fretta di far combaciare la realtà dei fatti con le riprese di un anno e mezzo prima, si fosse perso per strada il buono che c'era ancora nei rapporti tra i quattro.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: "Get Back" non è una visione adatta a tutti gli amanti del documentarismo pop. Le otto ore di durata, sebbene divise in tre episodi, possono far desistere dall'impresa chiunque non sia più che motivato a indagare la genesi dell'ultimo disco pubblicato dai quattro scarafaggi di Liverpool. Ma, d'altronde, la filmografia di Peter Jackson non brilla certo per capacità di sintesi e, in ogni caso, il senso dell'operazione "Get Back" stava proprio nell'allargare il campo delle informazioni disponibili. Al di là di quello che è già noto sulla vicenda, come le discussioni tra Harrison e McCartney, la frustrazione dello stesso George nel vedersi quasi sempre escluso dalla proverbiale alchimia umana/artistica di John e Paul, e le diverse opinioni sulla direzione che doveva prendere il progetto, ci troviamo qui di fronte a un piccolo cambio di paradigma riguardo a quello che si pensava potesse essere vero per il gruppo nel gennaio 1969. Indugiando abbondantemente sull'inevitabile cazzeggio da tempi morti in sala di registrazione (quelli che saltavano fuori mentre il fonico Glyn Johns metteva a punto microfoni e bobine o mentre una parziale rappresentanza della band era in attesa dell'arrivo degli altri), Jackson mostra un quadretto più dettagliatamente intimo di cosa passava nella testa di quattro ragazzi "più famosi di Gesù Cristo" durante le situazioni di incertezza e di come ognuno di loro le gestiva di fronte alle onnipresenti telecamere.
Le recording sessions di "Let It Be" sono state un banco di prova notoriamente sfidante per la band, quello in cui si è tentato di recuperare la complicità di suonare tutti insieme nella stessa stanza dopo l'estrema frammentarietà delle sedute del "White Album". Senza contare che, sullo sfondo, restavano ancora la coda lunga di uno spaesamento post-perdita di Brian Epstein e l'incombente presenza di Yoko in ogni singolo momento della vita di John Lennon, compresi quelli in sala di registrazione.
Nella prima parte di "Get Back" si parte da questo substrato di emozioni aggrovigliate, e si passa per il disagio vissuto nella location scelta per le riprese audio/video (gli algidi studi di posa di Twickenham) dove, mentre McCartney prova a orientare il timone per non far incagliare il progetto nelle secche del disinteresse, si consuma il dramma dell'uscita temporanea di Harrison dal gruppo. Se tutto questo era bastato a Lindsay-Hogg per definire il plot della storia ("we tell it like it is"), il materiale aggiuntivo scelto invece da Jackson inizia a mostrare la sua forza proprio quando persevera sull'incespicare dei Beatles a proposito della direzione da seguire. Nella riproposizione di jam session e dialoghi apparentemente futili o secondari, si nasconde quello che sembra un intimo desiderio di reagire, anche soltanto per motivi di orgoglio, all'inevitabile fine dei giochi attraverso la restaurazione dei cari vecchi tempi. Lennon ripristina velocemente il suo spirito cazzone, quello in grado di stemperare qualunque tensione (perché in fondo sa che anche lui ha la sua parte di responsabilità nell'abbandono di Harrison), mentre McCartney frena la sfibrante ricerca di concretezza nel momento in cui si accorge che l'impeto diventa frustrazione. Se sui Beatles deve calare il sipario, per completare lo spettacolo finale bisogna correggere alcune dinamiche. È in questo frangente che nascono anche le prime versioni di alcune song che finiranno su "Abbey Road" ("Something", "Maxwell's Silver Hammer", "Oh! Darling!", "Polythene Pam", "She Came In Through The Bathroom Window") e che vedranno quindi la luce in senso discografico ben prima di quelle di "Let It Be", ma intanto la band ha capito che bisogna cambiare registro e location. Qui si innesta la seconda parte del lavoro di recupero di Peter Jackson.
Mentre tutti si spostano agli Apple Studios di Savile Row, l'idea iniziale alla base delle riprese (filmare il processo compositivo di 14 brani per un documentario da trasmettere prima di un concerto finale in diretta della band) si trasforma nella decisione di lasciar perdere lo spettacolo televisivo e registrare invece un nuovo album. L'atmosfera che si respira agli Apple Studios è decisamente più rilassata. Il chiarimento con Harrison e l'arrivo del "quinto Beatle" Billy Preston sembrano dare linfa vitale e consistenza al progetto. Qui a tratti Jackson si fa prendere la mano nel mostrare qualche jam di troppo, ma i dialoghi e le risate che le accompagnano restituiscono una verità in parte dimenticata dalla pellicola di Lindsay-Hogg: i Beatles sono ancora in grado di divertirsi e onorare il marchio di fabbrica con un buon lavoro di squadra. Quello che a posteriori colpisce positivamente delle scelte di Jackson è il non aver ceduto alla tentazione di inframmezzare il materiale d'archivio con interviste ai Paul McCartney e Ringo Starr di oggi. Per tutta la durata di "Get Back" si ha davvero l'impressione di essere la mosca sul muro pronta a origliare e vedere tutto quello che succede, legata a un continuum che non esula mai neanche per un attimo dalla Swinging London del gennaio 1969. Paradossalmente, è proprio in questa assenza di confronto tra passato e presente, in questo focus spazio-temporale limitato, che l'opera di Jackson esprime una indiscutibile attualità: scegliendo di mostrare “il più possibile” di quel preciso momento, il regista neozelandese sottolinea tutto quello che rende universale (e quindi atemporale) l'umanità di quattro esseri umani alle prese con i loro scazzi e i loro entusiasmi. Mentre li guardi, i loro scazzi e i loro entusiasmi sono anche i tuoi e, pur nella lunghezza della visione, si fa largo una sensazione di conforto, di annullamento della distanza che ci separa da quei tempi e quei luoghi. Merito anche della coolness dei baronetti, certo, così come della capacità di essere sempre in qualche modo agganciati al loro presente (la critica sociale nel testo originario di "Get Back", poi limata, i continui riferimenti al discorso di Martin Luther King, da poco assassinato), ma è bene anche riconoscere a Jackson la bontà di una opzione tanto semplice quanto efficace.
La terza parte è quella dove il progetto cambia ancora una volta faccia. Si torna a prendere in considerazione l'idea di un'ultima esibizione dal vivo, magari in un contesto che non preveda né lunghi viaggi né grandi dispiegamenti di forze, e che pur tuttavia consenta di assaporare una certa allure di audacia. Si fa largo l’ipotesi di un concerto a sorpresa sul tetto degli stessi studios di Savile Row, mentre le riprese potranno confluire in un film per le sale, anche se tutto è stato girato nel formato 16mm televisivo e non nei 35mm del più consono standard cinematografico (particolarità che potrebbe anche essere all'origine della scelta di Jackson di rendere questo "Get Back" un prodotto per lo streaming casalingo). Nella preparazione del live emergono lampi di serenità che scaldano il cuore: in studio fa capolino Heather (la figlia di Linda Eastman-McCartney) che aiuta tutti a non prendersi troppo sul serio, Billy Preston viene invitato alle sessioni di ascolto del materiale come se fosse uno del team in pianta stabile, si ride e non si pensa al momento in cui la storia potrebbe giungere al capolinea. Si entra in pratica in un altro film, con un'altra band protagonista, qualcosa di estremamente rassicurante per il telespettatore che si è sorbito più di 400 minuti di "chissà che fine faremo", il vero mantra neanche troppo celato dell'opera.
Il resto è storia, aggrappata al tetto di un edificio nel centro di Londra e all'impressione che in un mondo perfetto tutto ciò non avrebbe mai dovuto concludersi. Ecco, dopo otto ore di proiezione, la vera forza del documentario di Jackson e, in definitiva, della storia dei Beatles: lasciarti la voglia di vederne ancora.