MCKENZIE - Falena (2019, Black Candy)
alt-rock, post-hardcore
Grintoso trio calabrese in pista dal 2015, i McKenzie giungono al primo album, direttamente accasati presso Black Candy Records, posizionandosi ad un'ideale crocevia fra i Gazebo Penguins di "Legna" e i Fast Animals & Slow Kids di "Hybris". Siamo quindi dalle parti di certo alt-rock di derivazione nineties, ma ben innestato negli anni Dieci e orientato con decisione verso la sponda più emo-core e rumorosa. Elettricamente travolgenti nel post-hardcore di "Sergio", più dark-wave in "Come se", inizialmente rotondi in "Mia", brano che evolve ritmicamente fino a sfociare in sussulti math, i McKenzie convincono pienamente, attraverso otto tracce che non lasciano spazio a riempitivi. Non si tira mai il fiato, e fra emozioni violente, disagio generazionale e male di vivere, "Falena" totalizza una buona mezzora che impone i McKenzie fra le migliori formazioni emergenti italiane, un'eccellenza fra quelle che insistono con decisione a puntare tutto sulle chitarre (Claudio Lancia 7/10)
WILDERNESS - I'm Not Here (2019, MiaCameretta Records)
post-rock, nu-new wave
Si muove in bilico tra post-rock, shoegaze e wave il sound dei frusinati Wilderness. Eterogenee, del resto, le influenze della band: il quartetto cita fra le proprie "mostri sacri" come Velvet Underground e Bad Seeds, ma anche realtà "anni zero" (Arctic Monkeys, BRMC) e "anni dieci" (il post-punk raffinato di Savages e XX). Ascoltiamo così un (indie) rock muscolare venato di sfumature ambientali e sfocature malinconiche, fronteggiato da un vocalist dal timbro profondo: un amalgama interessante, dall'appeal trasversale. I nostri non sono degli esordienti assoluti: alla nascita della band, avvenuta nel 2014 nella Capitale, è seguito un demo l'anno successivo, autoprodotto, così come il full-length d'esordio "Light After The First Dive", uscito nel 2017. "I'm Not Here", il secondo album, è stato invece pubblicato lo scorso gennaio dalla MiaCameretta Records, e l'auspicio è che l'approdo su label produca la meritata visibilità: la via per la nu-new wave italiana, a quanto pare, passa anche dalla provincia più profonda (Lorenzo Pagani 7/10)
ELEVIOLE? - Dove non si tocca (2019, autoproduzione)
pop
Prima di dotarsi del moniker Eleviole? la cantautrice Eleonora Tosca è alla guida degli Ariadineve per un unico "Buone vacanze" (2009) forte di un singolo, "Sempre al sole" (2012), il cui videoclip ha avuto una gestazione "on the road" che ha finito col trasformarsi in piccolo road-movie a puntate, "Autostop" (2012), per la regia di Fabio Luongo. L'esperienza si ripete, ma stavolta in bici e al di fuori dei confini nazionali (Finisterre) con un nuovo mediometraggio (2018, regia di Claudio Del Monte) per lanciare il primo album della sua seconda vita artistica, "Dove non si tocca". La commozione nell'intonare melodie sempre più gioviali con gli occhi arrossati da dolore e rabbia si tasta fin dal suo canto, e aumenta man mano che passa in rassegna le proprie confessioni, da "Tu che non mi manchi più", un ritornello propulso da una marcetta per bimbi, a "Dentro questa città", un'assenza rievocata a ritmo reggae. Questi candori mutano per qualche istante in febbri acute: il refrain corale senza parole di "Novembre è già qui" ricorre come uno spettro e acumina l'autoanalisi angosciosa. Lo spettro sonoro incorpora piccoli tocchi di folktronica, in "Tanti auguri", "Dieci gocce", "A di aria", ma poi si strugge con la musica da camera della lettera aperta di "Caro Vittorio". Co-scritto con il toscano Maurizio Mangoni (in arte Geometra Mangoni) che cura anche gli arrangiamenti, tocco di genio il flautino sfiatato e stonato in "Mi dimentico", incorporando filastrocche da "Zecchino d'Oro", nenie, sigle dei cartoni animati. Tosca, milanese, compie la mossa giusta nel rendere un po' quotidiano e un po' marziano il suo strazio più innocente, senza preoccuparsi di cliché e sottotitoli. Realizzato col sostegno del Progetto 100 Band all'interno di Giovanisì Regione Toscana (Michele Saran 6,5/10)
ILARIA VIOLA - Se nascevo femmina (2019, Lapidarie Incisioni)
songwriter
Il secondo "Se nascevo femmina" della romana eclettica Ilaria Viola mette radici in tre pezzi-cardine. Il trattato sulle abitudini nipponiche di "Bamboombeto" stritola il riff di "Smoke On The Water" tra dissonanze elettroniche e cori ululati. La novelty foxcore della canzone eponima, un proclama sessuale da far arrossire Debbie Harry ("Un utero secco!"), si sbrindella clownesca e supersonica tra scioglilingua e monologo delirante. La canzone-sabba "Martini", dialogo virtuale con l'amante, si esprime come fosse una fattucchieria repellente, amplificata peraltro da un passo thriller e un clima horror. A questi si accodano almeno due filastrocche, "La via di mezzo" robotica con i pizzicati come impulsi cibernetici e una "Per mezz'ora" in tempo ska, ampliate in ritornelloni enfatici che fungono ancora, seppur con più leggerezza, da aperte dichiarazioni di personalità. Sul ritmo di rullante rubacchiato dal "Bolero" di Ravel prende forma il flusso di coscienza che chiude il disco, "Mulini a vento", ma anche un funk svanito come "Leila" funziona come ritrattistica. Complice il co-arrangiamento con Giacomo Ancillotto che ne intuisce le schiette intenzioni anticonformiste, a cinque anni dal precedente "Giochi di parole" (2014), che in confronto a questo era una timidezza, Viola non solo si supera, si rifonda brutalmente. A tratti persino getta nuove basi per il cantautorato al femminile: "Se nascevo femmina", vera anti-canzone, è una sberla a cinque dita al neofemminismo del movimento #metoo. Demenzialità obliqua ispirata a John De Leo, strizzate al pop di "Studio Uno" e Giuni Russo, inflessione romanesca adorabilmente esposta. Discreta produzione di Lucio Leoni. Forse un po' troppo succinto, una brevità monca (Michele Saran 6,5/10)
GOODBYE, KINGS - A Moon Daguerreotype (2019, autoproduzione)
post-rock
I milanesi Goodbye, Kings si specializzano in partiture cromatiche, avulse dal tipico crescendo del post-rock classico: gli ancora bucolici "Memoire" in "Memoire EP" (2013) e "Ototeman" in "Au Cabaret Vert" (2014), quindi "Fujin vs. Raijin", "Tri-State Tornado", "12 Horses" e "The Bird Whose Wings Made The Wind" nel colossale "Vento" (2016), loro fulgore, e "Targa Florio 1906" in uno split con i canadesi Spruce Trap, "Targa Florio 1906" (2017). Nel medesimo filone si situano anche i quindici minuti del brano eponimo nel terzo "A Moon Daguerreotype" (epica progressione alla Opeth sventrata da un momento tribale-equatoriale). Il disco muove comunque da un umore diverso, meno imponente ma più meditato, fin nel primo gemito elettronico di "Camera Obscura", il simil-piano preparato di "Phantasma", lo scalpiccio free-jazz di "Space Frame Natives", brevi e arditi numeri d'introduzione e intervallo. Anche la composizione sembra privilegiare le sfumature anziché le architetture, da una "Méliés The Magician" colta tra il Neil Young di "Cortez The Killer" e i Bark Psychosis di "Hex", a una "Drawing With Light" i cui arpeggi esalano soffici droni che poi mutano in distantissimi tocchi enigmatici. Il massimo del patema sta in "Ancient Camera Of Mo Zi", swing lentissimo e sconsolato. Formazione aperta in instabile espansione, ora un settetto con sax già testato nel live "Musicolepsia" (2018). Da sempre improntati al passatismo (un'autodefinizione programmatica: "Instrumental soundtrack for a never-made european retro movie"), il combo si tuffa nel mondo dei primordi di fotografia (Daguerre) e cinema (Méliés), aumentandone le implicazioni di magia (Mo Zi), con un album dal fascino coerentemente evanescente, diafano, dall'elevato potenziale pur non munto appieno. Ogni brano ha almeno un punto in cui la musica va dissolvendosi, metafora dell'inconoscibilità della storia passata. L'esprime senza alcuna parola cantata. E con il buon master del solito James Plotkin (Michele Saran 6,5/10)
STEFANO VERGANI – Mi sono giusto allontanato per un attimo (parte prima) (2019, Lapilla Records)
songwriter
Attivo dai primi anni del decennio scorso, Vergani non è mai stato molto prolifico e pubblica questo disco di 7 canzoni per 26 minuti totali dopo ben 5 anni di assenza. L’unione tra stile melodico e timbro vocale è propria dei vecchi cantastorie con la voce ruvida e con un impianto melodico sfuggente e che dà l’impressione di essere lì più che altro per dare una forma musicale ai testi. I suoni, invece, sono decisamente più curati e moderni, con una chiara impronta digitale e un carattere arioso e sognante, Proprio queste ultima caratteristiche sono comuni con l’aspetto vocale e testuale, e questo fa sì che Vergani non fa la figura dell’autore vecchia scuola che prova a fare il giovane incollando sopra allo scheletro delle proprie canzoni una parte musicale più al passo coi tempi, ma risulta un artista che mette insieme abilmente tradizione e modernità con gusto, sensibilità e credibilità. Le canzoni in sé sono solide senza raggiungere particolari picchi, ma la costruzione complessiva è ben riuscita e può essere vista come un buon modo di ripartire e magari rimanere sulla scena discografica con un po’ più di continuità (Stefano Bartolotta 6,5/10)
MARTÆ - L'ultima volta (2019, You Can't Records)
indie-pop, songwriting
Appena diciannove anni, cantautrice e chitarrista, forte degli studi classici che tuttora sta portando avanti, Marta Boraso presenta cinque tracce che compongono il proprio Ep d'esordio. Con infinita grazia propone la personale versione dell'indie-pop cantato in italiano, ricercando sempre l'eleganza e rifuggendo dai facili slogan acchiappa like. Piuttosto Marta preferisce guardarsi dentro, osservarsi, miscelando forma canzone, mitologia e letteratura. Un esercizio di pop "alto" di grande raffinatezza, nel quale trova posto l'innata attenzione per le sfumature. Una ragazza di grande talento, con molte cose da dire: dopo questa convincente opera prima, la aspettiamo con curiosità al traguardo del primo album (Claudio Lancia 6/10)
HOFAME - Un istante (2019, Riff)
songwriter
La novelty acustica "Un senso di nausea", forse il suo capolavoro con solo di sax, diventa un buon vessillo per "Un istante" di Cristiano "Hofame" Alberici, ora connotato da uno stile più commerciale, una decisa incursione nel jangle-pop di Bats, Clean, primi Rem, "Quando si vive non accade nulla", "Addio terraferma", "Cento volti", anche quando accentua un ritmo frizzantino ("La caduta degli dei") o al contrario toglie la batteria ("La verità"). Il cantore/cantautore lodigiano prosegue la sua avventura al di fuori degli X-Mary con un terzo disco, il cui vago concept marino ritorna idealmente al primo "O barche..." (2014), che è forse il suo migliore per via della compattezza di suono - di pari passo con la consueta brevità - e la precisione d'orologeria nelle formazione delle canzoni, ma non solo: riceve una duplice benedizione, i testi a un soffio dal monologo sconnesso e le chitarre elettriche a tratti misticheggianti di Marco Giacomini. Co-prodotto con La Barberia. Seguito da un Ep di remix ("Tempus/Temporis", 2020) (Michele Saran 6/10)
ROCCO ROSIGNOLI - Tutto si dimentica (2019, Sophionki)
songwriter
Nato in quel di Parma, Rocco Rosignoli prima ancora che cantautore è letterato e animatore culturale. Con questa sensibilità e con la sua competenza di chitarrista innamorato di cordofoni dal mondo (bazouki, mandolino, oud arabo) realizza i suoi dischi, "Uomini e bestie" (2011), "Testuggini" (2013), "Scansadiavoli" (2015), oltre a qualche colonna sonora. A questi si aggiunge "Tutto si dimentica", forte di due numeri insoliti. La doppia "Di là dal fiume/Tutto si dimentica" esprime al meglio il suo ego a metà via tra Guccini e San Francesco (un recitativo melodizzato sopra un tenue bordone di concertina e un fiddle che sembra preso da "Water Is Wide"), ugualmente intenso anche nella seconda parte, appena più spettrale e severa. Un'altra deviazione interessante sta in "L'ulutato", declamata e rimbalzata nella stereofonia, quasi un duetto rap, alternata a un ritornello dal sentore gallico. Ballate di protesta esistenziale anziché civile ("Amen nel canto", "Colline"), alle prese con la più spiccia quotidianità ("Te nel deserto"), fino a un cantico corale in cui gli ospiti invitati impersonano come attori quanto descritto dal titolo, "Cantori anonimi", sono invece consuete prove di filologia folk. Forse però in una cover, "Icaro" (italianizza la "Icarus" di Anne Lister), ritratto fatalista, debitrice di "Canzone per un'amica" di Guccini e della "Suzanne" di Cohen, s'intensifica la dimensione descrittiva dell'album (preponderante su quella musicale). Per gli amanti del folk tradizionalista è una manna dal cielo in quanto a nitore, distinta sobrietà, per il resto del mondo suona come un menestrello apolide catapultato nel 2019 che canta l'era prendendola morbidamente, non senza retorica cerchiobottista. Eppure è un ciclo di canzoni a suo modo necessario. Riscatta le mollezze un pezzo in bonus, "Sul selciato di Piazza Garibaldi": elettrificata, vispa, antifascista. Molti ospiti, specie nella già citata "Cantori anonimi". Preceduto da "Shir" (2019), raccolta di canti ebraici (Michele Saran 6/10)
FITZKARRALDO - B (2019, Edwood)
instrumental
Collaboratore di band underground internazionali, critico musicale, blogger di poesie e poi poeta a pieno titolo ("Margini strutturali", 2015) da cui un progetto spoken-word ("Tuorlo", 2018, a nome Calgolla), Emanuele Calì - palermitano rilocato a Berlino - diventa anche musicista, batterista, quando a fine 2016 incontra in terra teutonica la chitarra di James Anderson. Battezzato Fitzkarraldo, il duo debutta dopo qualche intenso tour (e una "Dalek Session") con "B". Raccoltina di pillole strumentali noise-rock, fluente, ripulita da particolari eccessi armonici e anzi qua e là ammiccante alla moda del surfabilly rivitalizzata dai già derivativi I Hate My Village. Le migliori meritano un paio di ascolti: la Jesus Lizard-iana cingolata (e anche ingenua) "F", l'arruffato valzer di "E", e, dal punto di vista della performance chitarristica, un quasi delirio in "D" che però non regge il confronto con i Tristan Da Cunha. I conterranei Uzeda solo in flebili echi. Prodotto da Michele Piazzi e Andrea Parolin (Michele Saran 5/10)