New York, 1978. Lo studioso di letteratura Edward Said pubblica un saggio destinato a far discutere gli accademici anglofoni al di qua e al di là dell'Atlantico, "Orientalism".
Il tema è molto importante per l’autore, che ha origini palestinesi e cittadinanza americana, poiché riguarda l'influenza e il controllo indiretto esercitati dall'Occidente sull'Oriente e la conseguente immagine stereotipata che se ne produce. A suo dire, si tratta di un effetto diretto della cultura del colonialismo e dell'eurocentrismo, che da sempre rappresenta i popoli dell'est del mondo come rozzi, violenti e arretrati.
La questione è decisamente centrale, ma anche altamente divisiva, e fa emergere critiche che si concentrano sui limiti cronologici e geografici del saggio, che a quanto pare non terrebbe abbastanza in considerazione una parte della bibliografia europea sull’argomento e non sottolineerebbe a sufficienza le differenze tra la nuova percezione del mondo orientale nel secondo dopoguerra e quella di tutta l'epoca coloniale precedente.
Certo è che in quel periodo, anche a livello politico, l’Oriente (inteso come Medio Oriente) inizia a essere percepito come una polveriera: Khomeini guida in Iran la rivolta popolare e teocratica che porterà alla caduta del regno di Persia (con conseguente crisi energetica mondiale legata al prezzo del greggio), l’Urss invade l'Afghanistan non rendendosi conto di andare incontro al suo Vietnam personale, Israele invade il Libano.
Poco per volta, l'est diventa il simbolo di un mondo che sta cambiando e che si trova a fare conti con il passato in maniera piuttosto brutale, imprevedibile e perfetta metafora di quello che accade anche nel rock, dove la rottura già consumata dal punk lascia spazio a un vero e proprio cambio di paradigma (la new wave) in cui sono le più disparate forme di contaminazione a tenere banco.
In aggiunta, l'Oriente (inteso come Estremo Oriente) guadagna visibilità anche come opportunità di crescita individuale, in virtù della maggiore diffusione delle dottrine filosofiche induiste, buddhiste e sufi, e la cultura di paesi lontani come il Giappone sembra rappresentare uno dei modelli più affascinanti a cui ispirarsi, un modo per poter finalmente controllare il proprio sé e le proprie contraddizioni senza venirne distrutti.
La scena artistica anglosassone, forse ancora inconsciamente alle prese con l'ingombrante passato colonialista, riceve queste istanze mettendo ora maggiormente in risalto l’aspetto legato allo scambio culturale (a differenza, ad esempio, del “periodo indiano” dei Beatles, frutto di curiosità ed esperienze personali), estendendosi al continente africano e, più in generale, a tutta la musica etnica.
Ecco così che il sud e l'est del mondo iniziano a far rima con controcultura, e diventano lenti attraverso le quali contemplare visioni alternative, lontane dalla superficialità del riflesso edonista in agguato, portando i musicisti (in particolare quelli di estrazione new wave e post-punk) a cimentarsi con l’utilizzo di scale arabe, il cui diverso intervallo tra le note sembra riuscire a restituire meglio la tensione del momento. Dal punto di vista prettamente ritmico, anche i batteristi trovano inevitabile prendere le distanze dall'heavy rock e dal punk anni Settanta, preferendo l'uso dei tom a discapito dell'hi-hat e dei piatti, cosa che immediatamente dà origine a un risultato vagamente "tribale", anche se inizialmente non riferito ad alcuna provenienza geografica specifica.
Come sempre, fra i primi ad annusare l’aria e fiutare il cambiamento c'è David Bowie, che non a caso ha scelto già da qualche anno di abbandonare la dissoluta California per inseguire la disintossicazione in uno dei luoghi simbolo dell'est, seppur europeo: Berlino.
Dopo l’esperimento (agevolato da Brian Eno) di "The Secret Life Of Arabia" e "Abdulmajid", entrambe dell'epoca "Heroes" (1977), il Duca Bianco ingloba scale arabe e ritmi reggae in "Yassassin", su "Lodger" (1979), pubblicato addirittura come singolo in Turchia (il titolo stesso è un gioco di parole tra l'equivalente di "lunga vita" in turco e la parola assassin in inglese).
Ma l'elenco di esempi è comunque nutrito:
- messo da parte l’appellativo "Rotten", John Lydon diventa traghettatore universale di anime dal punk al post-punk con i neonati Public Image Limited (1978), facendo suo uno stile vocale che svela più di una affinità con quello dei muezzin;
- Siouxsie and the Banshees pubblicano una delle fotografie più rappresentative della fascinazione operata dall'estremo oriente ("Hong Kong Garden", 1978), come inizio di una carriera che giocherà con queste sonorità per tutto l'arco degli anni Ottanta, da "Israel" a "Arabian Knights", da “Bring Me The Head Of The Preacher Man” a "Cities In Dust". Il drumming di Budgie e le linee di chitarra di John McGeoch diventano riferimenti a livello tecnico tra il 1980 e il 1982;
- i Cure esordiscono sul mercato discografico con "Killing An Arab" (1978), il cui titolo, ispirato al romanzo "Lo Straniero" di Albert Camus, fa avere loro parecchi problemi con tutta una serie di associazioni che ne fraintendono il significato, ma l'impatto delle scale arabe nelle loro composizioni si fa sentire anche in diversi episodi immediatamente successivi, come "A Reflection" (1980) e "Other Voices" (1981). L’infatuazione per l’Oriente sarà piuttosto evidente anche in “Wailing Wall” (1984), “Kyoto Song” (1985), “If Only Tonight We Could Sleep” e “The Snakepit” (entrambi tratti dall'album "Kiss Me Kiss Me Kiss Me" del 1987);
- Adam and the Ants e Bow Wow Wow (entrambi sotto la sfera di influenza di Malcolm McLaren) impostano gran parte del loro materiale su un sound sfaccettato e percussivo spesso influenzato da ritmi del Burundi, che nel caso degli Ants non disdegna qualche passaggio a Oriente (come "Ants Invasion" su "Kings Of The Wild Frontier", 1980);
- i Talking Heads, ovvero il gruppo americano meno americano di tutta la new wave, maneggiano con disinvoltura poliritmie africane (di nuovo grazie al contributo di Brian Eno) su "Remain In Light" (1980), che diventa in poco tempo una pietra miliare nel genere. A contenderle il trono, un'altra opera della premiata ditta Eno-Byrne, "My Life In The Bush Of Ghosts" (1981), il cui obiettivo principale è proprio quello di arrivare a una fusione tra musica occidentale e musica etnica arcaica;
- i Japan, che già a partire dal nome non fanno mistero dei loro riferimenti, arrivano a sintetizzare con notevole maestria tecnica una vera e propria occidentalizzazione delle due anime, orientale e africana, su “Tin Drum” (1981);
- Peter Gabriel, al suo terzo album solista (1980), intensifica l’attrazione nei confronti di aspetti tribali ed etnici, dando poi vita (insieme a esponenti della scena post-punk di Bristol) al WOMAD, un grande festival internazionale di arte e musica proveniente da tutto il mondo.
E in Italia?
La posizione privilegiata del nostro paese, in mezzo al Mediterraneo, consente da tempo la diffusione di sonorità esotiche, come dimostrato da alcune melodie della tradizione partenopea costruite su scale arabe (“Tammuriata Nera”, “Caravan Petrol”).
Grazie al contributo di Demetrio Stratos, anche un gruppo come gli Area comincia a farsi portavoce di istanze che mescolano note e politica (soprattutto legate alla causa palestinese) in "Arbeit Macht Frei" (1973), giungendo a un audace e indimenticabile connubio tra jazz, rock e vibrazioni mediorientali su episodi come "Luglio, Agosto, Settembre (nero)", "Cometa Rossa" (1974), "L'Elefante Bianco" (1975), "Il Bandito del Deserto" (1978).
Alla morte di Stratos, è metaforicamente Franco Battiato a raccogliere il testimone della contaminazione sul suolo italico, grazie a "L'Era del Cinghiale Bianco" (1979), al contempo svolta pop e sguardo su altri mondi, in cui sono le opere del filosofo francese convertito all’Islam René Guènon e del mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff a suggerire le coordinate.
Pur viaggiando su binari diversi, la (non) new wave italiana di Battiato diventa quindi in realtà una perfetta trasposizione tricolore di quello che accade nel resto del mondo occidentale e impiega qualche anno per venire assimilata a livello concettuale dai conterranei, quasi fosse una novità proveniente dall'estero.
Escludendo i riferimenti alla terra del Sol Levante nell’esperimento pop della Rettore su “Kamikaze Rock’n’Roll Suicide” (1982), sono infatti i Litfiba a operare una efficace "mediterraneizzazione" di quanto proveniente da oltremanica in termini di post-punk, inserendo elementi ricollegabili sia agli Area (le melodie arabeggianti, lo stile vocale di Piero Pelù influenzato da quello di Stratos) che a Battiato (le linee di synth). L'intenzione si fa più evidente in brani come "E.F.S. 44" (1982), "Dea del Fujiyama", "Onda Araba", "Elettrica Danza" o la cover stessa di “Yassassin” (tutti usciti nel 1984), e diventa poi di respiro internazionale grazie alla cifra mediorientale di "Istanbul", quella est-europea di "Tziganata" e latinoamericana di "Desaparecido" (1985).
Ancora una volta, e a maggior ragione nell'era dell'edonismo reaganiano, il sud e l'est del mondo restano gli orizzonti preferiti per immaginare un affascinante contraltare all'imperialismo mainstream della politica e della superficialità tout-court.
Con i Cccp si torna a Berlino (dove eravamo partiti, con Bowie), e più precisamente nel quartiere Kreuzberg, luogo simbolo dell'immigrazione turca in città. Ferretti e Zamboni, che già da tempo incarnano il filosovietismo non come appartenenza meramente politica ma come antitesi al sistema di valori americano, leggono la scritta "Punk Islam" sul muro di una stazione della metropolitana e lo utilizzano come titolo di uno dei loro brani più famosi, che esce nel 1984.
"A Istanbul sono a casa/ Ho un passato e un futuro/ Ho un presente che è Dio/ E fa la cameriera", salmodia Ferretti, introducendo di fatto per la prima volta anche l'Islam come esempio di resistenza al predominante modello materialistico/capitalistico. L'impianto musicale scarno, al pari della restante produzione dei primi Cccp, rappresenta un'analogia calzante con il Medio Oriente martoriato dalle guerre, per il quale verrà scritta anche "Radio Kabul", nel 1987.
Ferretti e Zamboni continueranno a raccontare quella parte del mondo anche su “La qualità della danza” e “Palestina (15/11/1988)”, entrambe del 1989, nel penultimo atto discografico ufficiale prima dello scioglimento dei Cccp e della rinascita come Csi (dove invece subiranno il fascino della Mongolia).
Nel frattempo la caduta del muro di Berlino sancirà la fine della contrapposizione Blocco sovietico/Nato, portando a una generale ridefinizione di tutta la sfera di influenza dell’Urss e degli equilibri in Asia. La musica del sud e dell’est del mondo verrà occidentalizzata ancora negli anni Novanta (Mano Negra, Asian Dub Foundation, Kula Shaker, Cornershop), smettendo di rappresentare soltanto una contaminazione e diventando, piuttosto, un punto da cui partire.