Lucio Battisti

Don Giovanni - Dopo di noi il diluvio

Dopo di noi non spioverà
Dopo di noi il diluvio

mogolbattisti_01La querelle innescatasi tra Mogol e Grazia Letizia Veronese, la moglie di Lucio Battisti, in seguito alla recente messa in onda dello speciale Rai dedicato al compianto genio di Poggio Bustone, ha generato un polverone mediatico protrattosi ben oltre le normali disquisizioni.
Tralasciando le diatribe relative all’utilizzo del repertorio di Battisti e alla divisione dei diritti di tali opere (i motivi dell’acerrima disputa sono essenzialmente quelli), una delle micce innescate dal citato docufilm “Lucio per amico. Ricordando Battisti” è stata la colpevole assenza - tranne che per alcune fulminee menzioni di Mussida e Maionchi - di accenni al periodo artistico cosiddetto “degli album bianchi”, nel quale Lucio Battisti si è avvalso della collaborazione del poeta romano Pasquale Panella.
La figura di Panella si era già inserita nel mondo musicale italiano grazie alla joint venture con un altro artista, Enzo Carella, certamente meno famoso del compositore reatino, ma parimenti meritevole di lode e anche di riscoperta, per chi non ne avesse ancora avuto l’occasione. Sono proprio gli ascolti delle opere di Carella ad aver avviato in Battisti la volontà di un cambio di direzione  stilistica, volto alla ricerca di un prodotto più coraggioso dal punto di vista melodico e di conseguenza che prevedesse un ulteriore progresso anche per quanto concerne le liriche.

In quegli anni stava spopolando la new wave e l’utilizzo massivo di tastiere ed elettroniche decisamente complesse: una ventata che aveva travolto anche Lucio, ormai deciso a voltare pagina definitivamente rispetto ai fasti del passato.
L’album “E già” del 1982 fu il primo lavoro concretizzatosi senza la figura di Mogol. Un disco scomodo, più importante che bello, dove l’elettronica entra a capofitto nelle nuance battistiane, come accaduto anche per i due progetti dai forti tratti sperimentali che lo avevano affiancato all’amico Adriano Pappalardo (“Immersioni” del 1982 e “Oh! Era ora” del 1983). In particolare, proprio per la stesura del secondo lavoro con Pappalardo, Battisti ebbe modo di lavorare per la prima volta con Pasquale Panella: una cooperazione primordiale, che diede subito buoni risultati e che spinse entrambi a tentare di andare oltre quel piccolo esperimento.

dongiovanni_battisti_coverA quattro anni di distanza da “E già”, tra silenzi, attese (mai prima d’ora Battisti aveva fatto passare così tanto tempo tra due dischi), misteri sulla sua vita, pubblica e privata, venne alla luce “Don Giovanni”, il primo album di Battisti elaborato su testi scaturiti dall’enigmatica penna di Pasquale Panella.
Fu un fulmine a ciel sereno.
L’evento riporta il sottoscritto all’età adolescenziale, quando un dodicenne, già particolarmente appassionato di musica, ascoltò casualmente per radio il brano “Equivoci amici”, singolo apripista lanciato per promuovere il citato full length, convincendo, di conseguenza, l’amato papà all’acquisto, davanti agli occhi sbarrati del gestore del negozio di un paesotto di periferia, che scorgeva un ragazzino interessato a un’opera dai lineamenti decisamente poco immediati, invece di convergere verso la massa dei teenager che in quegli anni sbavavano per gente come Madonna, Duran Duran e Spandau Ballet.
Naturalmente, già conoscevo le canzoni più famose di Battisti, più che altro perché passate a nastro in radio e anche in tv e da qualche musicassetta che circolava in casa grazie ai genitori, ma quella stranissima sequenza di stravaganti nomi e cognomi elargiti in apertura del nuovo pezzo mi aveva, come dire, rapito in modo magnetico:

Cassiodoro Vicinetti/ Olindo Brodi, Ugo Strappi/ Sofio Bulino, Armando Pende/ Andriei Francisco Poimò

e continua a farlo anche a distanza di decenni, laddove se all’epoca poteva apparirmi una simpatica e stralunata lista di improbabili figuri, col tempo, analizzando a fondo la storia, la genesi dell’opera e maturando, come tutti, il proprio personale background musicale, si è trasformata in qualcosa di molto più complesso e strutturato:

Uno andò saldato/ Uno vive all'estro/ Uno s'è spaesato/ Uno ha messo plancia/ E fa il trans-aitante/ Uno fa le more/ Uno sta invecchiando/ Perché è/ Un nobile scotch

sono solo alcuni dei singolari doppi sensi e giochi letterari che Battisti, ovviamente su invenzione dell’acutissimo Panella, recita a corollario di alcuni degli ambigui amici elencati. Un brano avvincente, accattivante, che non ha alcuna ambizione di scendere nel profondo, nel sentimento, ma che fa breccia nella mente grazie a una melodia articolata, stesa con grande disinvoltura: è iniziato il periodo Battisti-Panella, un mondo completamente inedito, diametralmente opposto alla stagione Mogol, che vedrà fiorire in Battisti la smania di sondare nuovi settori e scommettere su se stesso, con l’altissimo rischio di gettare alle ortiche tutto quel successo, quel bendiddio di evergreen che lo hanno consegnato a imperitura memoria. Ciò, però, non accadde.

panella_dongiovanniPer “Don Giovanni”, Panella adattò i propri testi su musiche precedentemente preparate da Battisti, una dinamica che non si ripropose più nel corso della loro futura associazione.
Uno dei punti di forza di “Don Giovanni” è da stanare nell’abilità mostrata da Battisti nel forgiare nuove strutture armoniche senza accantonare completamente il proprio stile. L’utilizzo di archi, fiati, percussioni concrete, pianoforte, misti alle innovative sonorità elettroniche che tanto lo stavano intrigando in quel periodo, raggiunge un amalgama che in questi solchi ha una sintesi quasi perfetta, che si discosta dalle spigolose scelte, troppo frammentarie, del precedente e discusso “E già”.

Le rarefatte ed eleganti linee offerte da “Le cose che pensano” levigano una poesia coniugata quasi completamente in passato remoto, acquisendo senso, equilibrio e definizione in ogni verso, tra un neologismo panelliano e l’altro:

In nessun luogo andai/ Per niente ti pensai/ E nulla ti mandai/ Per mio ricordo/ Sul bordo m'affacciai/ D'abissi belli assai/ Su un dolce tedio a sdraio/ Amore, ti ignorai

quasi una contrapposizione al concetto di amore che con Mogol aveva sempre assunto fisionomie più lineari. Qui il sentimento principe dell’essere umano è visto con distacco, come se non fosse un cardine dell’esistenza. L’altra faccia della medaglia propone, invece, un testo avvolto su musiche molto più riconducibili al background battistiano. La sensazione generale si consolida tra smarrimento e certezze, ma è una confusione corroborante, un vento di novità.
La conferma di tutto ciò la si ottiene nelle rime di “Fatti un pianto”, una dissacrante presa di posizione sulle pene d’amore, tra synth-pop e tratteggi jazz:

Dal monte ventoso dei miei sentimenti/ Sfoglio all’aria una rosa ricettario/ L’inizio è già indiziario/ Lei sciolse e poi si tolse lo chignon/ E calva d’amore, lustro sguardo da biliardo/ Boccia sul tappeto il suo pallino/ E la stecca del peccato/ C’è tanta nuda verità

Lo spigoloso Panella trasforma un elenco di prodotti alimentari nelle metafore delle trepidazioni innescate dalle canzoni sentimentali, un assurdo ricettario che pone sullo stesso piano chi si commuove all’ascolto di un brano musicale e chi prova gioia nell’aprire un barattolo di marmellata, reazioni giudicate esagerate, quasi imbarazzanti.
Battisti indossa il mantello del fine esploratore sonoro e ne fa pieno sfoggio tra i misteri aleggianti in “Il doppio del gioco”, un brano articolato, guidato da consistenti linee di basso volte a rinforzare un arrangiamento vivace, che scivola via con grazia, tra i più intriganti e riusciti dell’intera scaletta:

Giuro in concreto di non fare mai/ Più l’agente segreto/ Ed io mai che lo sospettai/ Fosse un’altra o due o sei/ Che il doppio giocò se scherzai con lei

battisti_moglie.È sempre l’amore il fil rouge che lega il tutto, qui incentrato sul tradimento.
Come ovvio che sia, tale concetto non avrebbe mai potuto essere trattato dai nostri secondo i classici statuti. La sinuosa struttura melodica di Lucio va di pari passo con i versi di Panella, che illustra sorprendentemente un uomo che scopre di essere, a sua insaputa, l’amante nascosto della sua donna, proprio lei che credeva invece essere la sua ufficiale compagna. Lei che, in preda al più assoluto sconforto, gli confida di averlo adoperato solo ed esclusivamente per ingannarlo e tutto ciò all’insaputa dell’amante effettivo, che a questo punto si ritrova a essere il terzo incomodo, ignaro della presenza di chi lo precede, che invece, sorprendentemente, è a conoscenza di tutto. Insomma, una storia sentimentale al contrario, contorta, per questo motivo ancor più intrigante, che fila perfettamente e che distanzia in modo ormai irreversibile il profilo del vecchio Battisti da quello attuale.

Se possibile, la situazione tende a divenire ancor più ingarbugliata in “Madre pennuta”, probabilmente il brano più enigmatico tra quelli presenti nel disco. Un uomo subisce un grave incidente automobilistico, dal quale esce fortunatamente incolume, ma ereditando momenti intensi, durati qualche secondo, dove ogni singolo frammento di memoria lo riporta a vivere quel tremendo episodio, ogni dettaglio, ogni piccola visione dell’accaduto. Una vicenda che lo segnerà emotivamente nel profondo, per tutta la vita, nel tempo:

Non c’è storia e/ Il tempo finge e poi commette l’ingenuità/ Non cancella mai le tracce sue/ Vuol esser preso, arreso, inchiodato lì

Come già puntualizzato, in questo disco lo schema della cosiddetta canzone d’amore assume inattesi connotati, spesso catapultati sottosopra, talvolta descritti con implacabile sarcasmo. Anche in “Che vita ha fatto” il protagonista è coinvolto nell’appurare la disperazione di una donna per la quale non prova alcun sentimento. Tra eleganti fragranze synth-jazzistiche - un po' come già avvertito in “Fatti un pianto” – l’uomo infingardo illude la donna al suo cospetto, esclamando più volte le parole “Ti amo”; un sentimento non sincero, che fa sprofondare la donna nella più totale passività, di chi attende gli eventi pur essendo cosciente che non accadrà mai ciò che auspica:

Che vita ha fatto/ Con lei duellò la vita/ Che vita ha fatto metà sognandola/ Metà in realtà/ Se poi è realtà/ Quel che in realtà sognò a metà

Il lato B dell’album, composto in tutto da otto brani, regala due tra le gemme più preziose dell’intero catalogo Battisti-Panella.
“Il diluvio” mescola un testo onirico, a tratti spiazzante, ad armonie sublimi, costruite su acutissime campionature, una commistione che ancora oggi si fatica ad analizzare nella sua totalità, figuriamoci nel 1986:

Straziante d’estri tristi annegherà/ La più assetata arsura nel frullio/ Un ingordo gorgo umido è l’addio

Il brano può ergersi a simbolo di tutto il contenuto racchiuso nell’album e della nuova direzione artistica imboccata. Battisti è consapevole di aver intrapreso un sentiero arduo e sconnesso, per molti discutibile, che aprirà certamente dibattiti, ma è proprio l’essenza che da un po’ di tempo a questa parte stava emergendo dal suo inconscio: la volontà di dire e far ascoltare un diverso profilo dell’artista che aveva per lunghi anni regalato gioie colorate da diverse sfumature, ora non più considerate vicine alla propria attuale natura. “Il diluvio” sotterra definitivamente il periodo Mogol: una canzone sulle canzoni, una pietra tombale sui concetti spesso effimeri dei classici sentimentalismi, fulcro di migliaia e migliaia di componimenti passati. "...Dopo di noi il diluvio..." recita un passo della canzone, traducendo una massima di Jeanne-Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour, che invita il suo amante, l’allora re di Francia Luigi XV, a non pensare alle drammatiche conseguenze che seguiranno la sconfitta di Rossbach contro i prussiani: "Après Nous, le Déluge!". Panella sembra convincere Battisti che la vecchia storia è finita e l’addio è la giusta azione da compiere in questo momento. Dopo cos’accadrà? Chissà, forse il disastro, ma forse no.

battisti3Nella title track, se possibile, il dito puntato sul rapporto artistico con il vecchio amico-collega (va detto, mai su quello personale, che resterà sempre indissolubile), diventa ancor più evidente. Si narra che il brano “Don Giovanni” sia stato una diretta controrisposta di Battisti a Mogol, il quale gli aveva rivolto parole pungenti, dopo la conclusione del loro rapporto professionale, nel testo del brano “La massa indistinguibile”, interpretato da Mango e inserito nell'album “Australia”, uscito l'anno precedente. La realtà non sembra smentire questa tesi. Era assai noto il fastidio che Battisti stava provando nell’essere da sempre considerato – descritto certamente con tono un po' esagerato - un semplice cantante di canzonette. Da qui, la forte volontà di svestire quei panni. La sciarpa appesa al chiodo disegnata dallo stesso artista per la copertina del disco con la tecnica dell’acquerello è, in questo, altamente significativa.

Nei passaggi:

L’artista non sono io: sono il suo fumista
Rivesto quello che vuoi: son l’attaccapanni

Panella codifica sinteticamente e in modo brillante, il malcontento che Battisti provava nell’essere da sempre la faccia e la voce del pensiero altrui. Il brano replica l’ormai consolidato canovaccio di un narratore che si rivolge ad altri. Qui il protagonista, come accennato, è il cantante, in un aperto confronto con l’autore, quasi come se gli stesse componendo una lettera:

Che ozio nella tournée/ Di mai più tornare/ Nell’intronata routine/ Del cantar leggero/ L’amore sul serio

In queste frasi è chiaro il disagio di Lucio nel continuare perennemente a sciorinare enfatiche e conformi emozioni d’amore. Il cantante sembra ora reclamare il proprio spazio, la propria identità come persona pensante, ora guidando l’autore dei testi a stilare ciò che gli passa per la mente:

E scrivi/ Che non esisto quaggiù/ Che sono/ L’inganno

luciobattistipasqualepanellaPanella, in questo brano soprattutto, sembra sfruttare il momento anche per un proprio tornaconto. Nell’essere lo strumento lessicale utilizzato da Battisti per dare spazio alle proprie idee, l’autore non stava facendo altro che scatenare in Lucio tutta quella forza di pensiero che non aveva mai potuto elargire al prossimo, forse perché – è onesto affermarlo - non perfettamente in grado di regolamentarla con la sopraffina tecnica dialettica del poeta.
Nonostante la radicale rottura con il passato, “Don Giovanni” diventerà il terzo disco più venduto in Italia nel 1986, raggiungendo anche il primo posto in classifica, posizione che occuperà per dieci settimane consecutive e per venticinque nella top ten.
L’esperimento poteva definirsi riuscito, dando il via a quel percorso, tortuoso, oscuro, avanguardistico, stracolmo di inventiva e di nuovi schemi, che arrivò progressivamente a regalare agli appassionati altre quattro gemme di cerebrale bellezza e che potranno certamente diventare il fulcro di un ulteriore spazio d’approfondimento mediatico sulla carriera di Battisti, un periodo artistico spesso, ed erroneamente per chi scrive, considerato quasi sempre minore rispetto a quello dell’era Mogol. Il giudizio è ovviamente personale, ma la certezza oggettiva è che questo disco ha decretato l’inizio del secondo tempo della partita artistica disputata da Lucio Battisti, una frazione di gioco articolata, vasta, scomoda e forse, proprio per questo, seducente e sempre foriera di nuovi indizi da analizzare con cura.