Per questo episodio di Underwave abbiamo pensato a una immersione in piena regola, visto che di tuffi e immersioni è fatta anche la materia musicale di cui ci occupiamo. Succedeva esattamente 41 anni fa. Il 14 settembre del 1982 Lucio Battisti pubblicava il suo primo disco senza Mogol. Un’opera artigianale, “home made”, controversa e imperfetta, che occupa però nella discografia come nella vita di Battisti un posto peculiare.
Il 14 di 41 anni fa. Secondo René Félix Eugène Allendy, famoso psicanalista e ricercatore francese, versato in massoneria, amante e terapeuta di Anaïs Nin, il 41 “è il principio dell'individualità, 1, che appare nelle mutazioni cosmiche, rappresentate dal 40”. Sarebbe a dire che rappresenta l’individuo che si sforza di realizzare e affermare la propria individualità in seno all’universo. Il 14 rappresenterebbe invece, seguendo ancora Allendy, lo speculare opposto. È simbolo cioè del modo in cui l’universo realizza le proprie trasformazioni all’interno dell’individuo.
Con tali premesse il quarantunesimo compleanno di “E già” finisce con l’essere quello che da un punto di vista numerologico ne rappresenta di più la tensione fra libertà individuale e desiderio di un rinnovato equilibrio con l’essenza e le leggi della Natura. Il Battisti di “E già” non ha ancora trovato il bianco assoluto della sua produzione successiva, ma sta indagando le strade che vi convergono in uno stato di perenne apertura all’errore fruttuoso. Studia Gurdjeff, Jung, il mare e, come si diceva, l’esperienza dell’immersione, che dava anche luogo al titolo del disco di Adriano Pappalardo cui Lucio lavorò all’epoca. L’acqua stessa, così come lo sport e la tecnologia, diventano altrettante metafore di un profondo desiderio di rinascita che va oltre la novità. Si trattava di spogliarsi dell’imperativo categorico del Numero 1 e imbroccare un’altra arte, un altro approccio con la musica e con la vita insieme. E già. Oppure, per dirla col titolo dell’altro disco Battisti-Pappalardo “Oh era ora”. In questo contesto tutto ha un significato. I passi, lo specchio e l’abbigliamento bianchissimo fotografati dal grande Gered Mankowitz in copertina. La presenza di una “non artista” come la moglie di Battisti Grazia Letizia Veronese, presente come Velezia (Veronese Letizia Grazia) in luogo del superprofessionista di sempre Mogol. L’essenzialità della strumentazione affidata a un non-produttore come Greg Walsh, le faccine sorridenti disegnate da un non-adulto come il figlio Luca.
Più che un disco, insomma, un gesto estetico onnicomprensivo, di cui sono le ingenuità a interessare tanto quanto gli aspetti più convenzionalmente riconducibili alla categoria del bello.
Ad analizzare le pieghe riposte di un’opera tanto essenziale e al contempo difficile da comprendere è il critico, musicologo e autorevole esegeta battistiano Donato Zoppo, che ritorna così ad esprimersi sull’opera di Lucio con un saggio che ha il ritmo di un romanzo. Il libro si intitola “Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale” ed esce in questi giorni per la collana Salamandra di Compagnia Editoriale Aliberti. La considerevole mole di dati e notizie e la puntualità dell’apparato critico vi appaiono come dissimulati, mentre sono il personaggio Battisti, la sua interiorità, certi scampoli di quotidiano carpiti e narrati con garbo a prendere la scena. A pensarci bene una operazione del genere poteva apparire non forzata soltanto come approfondimento del disco più privato e autobiografico di Lucio. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore in una chiacchierata che si è da subito rivelata “un’avventura” densa e suggestiva nell’affascinante microcosmo battistiano.
Cominciamo dall’oggetto del libro. Quali sono le ragioni che ti hanno portato a scegliere un “disco negletto”, come tu stesso lo definisci, all’interno dell’opera battistiana?
Al di là del fascino dell’album, disco di culto dimenticato se non rimosso, mi incuriosiva molto il Battisti dell’immediato post-Mogol. Il Battisti tanto spaesato quanto certo, tanto stranito dalla solitudine quanto determinato nel proseguire in quella direzione. D’altronde nel mio libro “Un nastro rosa a Abbey Road” lo avevo lasciato proprio alla separazione da Rapetti, quindi ho cominciato proprio da lì, narrando il biennio 81-82, ossia il lungo e intenso periodo che avrebbe portato al primo Lp senza Mogol.
Nelle prime pagine del saggio fai un interessante parallelo fra “Amore e non amore” ed “E già”, che trova riscontro anche nel fatto che hai scritto un saggio monografico su ciascuno dei due album. Senti forte il fascino del Battisti meno sicuro di sé?
In realtà credo che l’album del 1971 e l’album del 1982 siano dimostrazioni di forza, più che di insicurezza. Casomai è il risultato, l’esito finale, a mostrare crepe, imperfezioni, irrisolutezze. “Amore e non amore” era il disco del Battisti sbruffone, che voleva togliersi lo sfizio del blues con un solo accordo improvvisato in studio, che voleva far vedere che sapeva anche dirigere un’orchestra senza testi, che doveva approfittare della fine del contratto con Ricordi: ne uscì un disco curioso, anomalo, incompiuto ma anche per questo di culto. E già nasce per dimostrare di poter fare a meno di Mogol, con il consueto spirito battagliero del Battisti-fai da te, grande autarchico, con lo sfizio di smanettare nell’elettronica. È la duplice dimostrazione che a volte le motivazioni forti possono condurre a risultati deboli, ma nonostante questo interessanti, se non addirittura seducenti. “E già” a mio avviso lo è in pieno.
La “vedova Battisti” è sempre stata considerata un po’ una Yoko Ono del pop italiano ed è un raffronto che fai anche tu nel libro. Una ulteriore ombra arriva anche dai recenti risvolti delle vicende giudiziarie con la Sony. Nelle tue pagine il rapporto tra Grazia e Lucio viene invece indagato in modo delicato e originale, con immedesimazione. Vedi una continuità tra il modo in cui “Velezia” difese allora la creatività del suo compagno e la tenacia con cui ne blinda oggi il lascito, tenendolo su un piano distaccato e protetto? Possono essere entrambe considerate manifestazioni di un amore importante e assoluto?
È vero che spesso è stata accostata a Yoko, così come è vero che il mio parallelo va contestualizzato nel tema così ampio delle relazioni tra artisti famosi e compagne molto presenti, ma credo che verso Grazia ci sia stato troppo livore. Chi l’ha conosciuta, e ha conosciuto bene anche Lucio, è prevalentemente astioso verso di lei: il minimo comun denominatore è l’accusa di aver plagiato Lucio, di averlo separato dal mondo – non solo dalla famiglia – e di aver contribuito ad accentuare il suo carattere ombroso. Dall’altra parte, però, mi sono sempre chiesto: come deve essere la vita con un artista così popolare, che non può uscire di casa perché assalito dai fan (magari anche dalle fan), che è circondato dalla corte dei miracoli, che è assediato da miriadi di richiedenti, falsi amici, postulanti di vario genere? Credo che il loro sia stato un grande amore ma è un tema troppo intimo per ragionarci pubblicamente. Credo invece che sia più interessante tutto il percorso di tutela – spesso radicale, acritica – della integrità artistica del marito. A volte ossessivo, ma mosso comunque dal rispetto delle sue volontà. Peccato però che ci sia anche dell’ostinazione: non tutti siamo mossi da intenti speculatori sulla figura di Lucio, artista che raccoglie un grande rispetto e una splendida devozione da parte di pubblico e studiosi.
Ancora a proposito del Lucio “persona” e del suo privato ci sono delle pagine in cui tendi alla biografia pura, riportando gesti, dettagli, descrizioni fisiche, dialoghi ricostruiti mediante il lavoro certosino su fonti e interviste. Ti piacerebbe scrivere la sceneggiatura di un film su Lucio? Possibile che nessuno ci abbia mai pensato?
Sì, ho studiato tanto la figura di Lucio, a volte talmente nel profondo che stavolta, con naturalezza, me lo sono proprio immaginato. Mi hanno aiutato le fonti storiche, ossia gli oltre 50 libri scritti su di lui e i pochi video in circolazione, ma anche le interviste che ho fatto con chi lo conosceva bene. Per “Scrivi il tuo nome” ho dialogato con figure a lui vicine, come il nipote Andrea Barbacane, l’amico storico Pietruccio Montalbetti, oppure Susan Duncan Smith che gli organizzava le trasferte per Rca, o Dario Massari che gli impartiva lezioni di elettronica. Sarebbe molto bello, avvincente direi, scrivere un film su di lui: peccato sia oggettivamente complicato farlo, ricollegandoci alla domanda sulla moglie che mi hai posto prima…
In un film su Battisti un ruolo tutt’altro che marginale sarebbe da riservare ad Adriano Pappalardo. Nelle pagine che gli dedichi il personaggio di Adriano, che si tuffa nel mare e ne riemerge rigenerato, sembra quasi alludere simbolicamente a una palingenesi battistiana dopo la crisi del rapporto con Mogol. Come mai, secondo te, questa importanza non fu capita allora e ancora oggi rimane così tanto sullo sfondo?
Adriano è stato determinante in quella fase e ho provato a spiegare i motivi di quella relazione amicale così strana, imprevedibile. Il ruolo di Pappalardo è sempre stato sottovalutato, in primis perché aveva una storia molto lontana da quella battistiana, benché negli anni 70 Lucio lo avesse sostenuto e prodotto; in secondo luogo, all’epoca Adriano era un cantante pop senza particolari elementi di interesse se non il trionfo di “Ricominciamo”, quindi non era particolarmente appetibile. Di lì a poco avrebbe cominciato anche una carriera nel cinema, cosa che coincise con i due album più sperimentali prodotti da Lucio e in generale col silenzio battistiano. Tutto contribuì a rendere Adriano una figura poco credibile se accostata a Battisti, invece la loro amicizia generò tanto. “E già” è in parte il racconto delle loro passioni comuni, a partire dal windsurf.
A tratti lasci quasi intuire fra le righe un Battisti un po’ spiazzato dal successo di Battiato sul terreno della canzone d’autore. In particolare, mi ha incuriosito l’aneddoto sulla lettura di Gurdjeff. Ritieni che Lucio abbia sofferto un po’ di gelosia?
Un divertito Alberto Radius mi raccontò che Lucio non gradì molto il successo della “Voce del padrone”, in primo luogo perché superò in vendite il suo bestseller “Una donna per amico”, poi perché nella logica proprietaria battistiana Radius era una sua creatura e non avrebbe potuto lavorare con altri, figurati poi con un rivoluzionario come Franco Battiato. Così ho giocato su questa sottile invidia in un paio di episodi.
A proposito di Gurdjeff, a un certo punto fai un parallelismo tra la coerenza di suono delle produzioni di Robert Fripp nel periodo Peter Gabriel/Daryl Hall e quella parallela che lega “E già” e i due album Pappalardo/Battisti. Citi anche gli ascolti di Lucio in quel periodo: Kraftwerk, Brian Eno, Human League, Omd, Eurythmics ecc. Ritieni internazionale il suono di “E già”, o ci vedi più provincialismo rispetto agli album con Westley, “Hegel” compreso?
Credo che il vero suono internazionale, ossia competitivo con i colossi stranieri, Battisti lo abbia avuto con “Io tu noi tutti”e con la doppietta con Westley. Aveva un sound davvero scintillante, in quella terna, rispetto al quale “E già” era un po’ sofferente, anche per la dimensione individuale più marcata. Dario Massari mi ha elencato gli ascolti battistiani del periodo, dai Depeche Mode a Peter Gabriel: i primi avevano un’età più giovane ed erano dentro l’ondata post-punk, il secondo aveva un ruolo internazionale che lo poneva in un contesto di ricerca nel pop ben preciso. Era inevitabile che il Battisti solitario dell’‘82 fosse in una posizione più debole. Quel tipo di pop elettronico riusciva meglio a Matia Bazar e Garbo, per fare due nomi del periodo, i quali erano più giovani, meno legati a una dimensione statuaria con la quale Lucio ha sempre dovuto fare i conti, anche – anzi soprattutto – quando ha voluto azzerarla.
Nel testo ha una sua rilevanza peculiare il concetto di monotonale, una suggestione sonora che lega il disco alla ricerca che in quel periodo Lucio stava conducendo sulla timbrica della tastiera Fairlight. Però il titolo allude anche a “Qualcosa che vale”, il cover album d’autore in cui Patrizia Cirulli esegue tutti i brani del disco, accompagnata da una serie di chitarristi eccezionali, tra i quali il compianto Fausto Mesolella. Nel libro ricostruisci attentamente la genesi del disco e le sue particolarità, per cui ti chiedo quanto secondo te del fascino gelido e monotonale del disco è rimasto in quella raffinata rilettura?
Il CMI Fairlight fu una grande innovazione dell’epoca, Battisti ebbe modo di studiarlo nel dettaglio con Massari e anche se non lo usò in “E già”, fu tuttavia utile nel suo percorso di autonomia monotonale. Ho parlato anche del tributo di Patrizia Cirulli perché è un caso interessante. Credo sia la prima volta che un artista si occupi di rileggere integralmente un album di Battisti, ed è curioso che questo disco sia “E già”. Album completamente diverso dall’originale, onirico e visionario: qualcosa che vale è più caldo, pastoso, spesso virato in blues, totalmente acustico.
Adesso che il tuo lavoro è nelle librerie, quale curiosità rispetto a “E già”, l’album, vorresti suscitare nel lettore?
Mi farebbe molto piacere se chi legge potesse tornare non solo al riascolto del disco, ma anche all’ascolto degli album con Panella – compreso “Oh! Era ora” di Pappalardo. A volte chi ascolta è troppo superficiale e ignora le motivazioni, il contesto, i retroscena: anche quando un album è imperfetto, resta un documento storico. “E già” è la colonna sonora della vita battistiana nel periodo della rinascita, e già solo per questo merita la riscoperta.