04/10/2018

Wire

sPAZIO211, Torino


Senza girarci troppo intorno: questo "Silver/Lead" è davvero poca cosa. Non che sia un brutto disco, intendiamoci, ma l'idea che i Wire abbiano da tempo esaurito quello che avevano da dire si rafforza uscita dopo uscita, e l'ostinazione nel portare avanti con tanta regolarità una carriera ormai sfibrata deve avere a che fare più con un capriccio da esaudire che con un'ispirazione da sfogare. Insensibili al sacrosanto motto "il gioco è bello quando dura poco", almeno in questo sono rimasti fedeli all'autoindulgente protervia del punk. Ciò non toglie che i primi lavori di Colin Newman & C. rimangano macigni imprescindibili per comprendere buona parte della musica in circolazione, e assistere a un loro concerto è un minimo tributo a quella irripetibile stagione creativa: ancora meglio se a Torino, da sempre la dark city italiana per eccellenza.
Li vidi dal vivo esattamente dieci anni fa, proprio nel capoluogo piemontese, e non mi convinsero granché: parevano svogliati, come fossero i primi a non essere presi dalla loro stessa musica. La verità è che i Wire sono sempre appartenuti più alle accademie d'arte in cui si sono formati che ai palchi rock su cui si sono affermati, e consegnare al pubblico una performance energica probabilmente non è mai stata una loro prerogativa: se volete dell'intrattenimento, sembrano suggerirci, siete pregati di rivolgervi altrove.

Sarà l'autosuggestione, ma stasera lo sPAZIO211 sembra davvero una discotecaccia anni 80 di periferia: soffitto basso, neon blu, brutte facce, nebbia fuori e dentro il locale. La sala è strapiena, la visibilità limitata, il suono farà verosimilmente schifo, ma tutto contribuisce a rafforzare questo godibile sapore d'epoca. Quando salgono sul palco, l'aria è già da tempo irrespirabile. La geometrica ripartizione tricologica, con i chitarristi capelloni e la sezione ritmica calva, pare l'ennesimo strambo tributo alla loro ossessione costruttivista. Con quel cappellino da baseball a calcare la chioma da tempo ingrigita, Newman sembra una sorta di J Mascis post-punk, con una Airline al posto della Jaguar (impugnata invece dall'altro chitarrista).
Non riconosco i primi due brani, caratterizzati da sonorità insolitamente metalliche, e capirò perché solo a fine concerto. "Three Girl Rhumba", tra gli anthem del mitico "Pink Flag", arriva come uno sghembo raggio di luce, ma è suonata in maniera così caotica da risultare imperscrutabile, al pari della spigolosa "Underwater Experiences" (ma in questo caso lo era anche nella versione studio).

Bombardata da luci strobo, la lunga "Over Theirs" è invece un bell'esercizio di ipnotismo tribal-industriale, trapuntato di feedback e suoni graffianti, con un finale prossimo al rumorismo. Ugualmente tagliente, ma più compatto il brano successivo (che non ho identificato), costruito su serrati stop and go sottolineati dalla grassa distorsione del basso.
"Small Black Reptile", accostabile a certe cose dei Savage Republic, svela la loro nascosta vena esoterica, con un solo psichedelico che non è la prima cosa che ti aspetti da una band tendente al bianco e nero desaturato più che ai ghirigori colorati. Su vibrazioni simili "Red Barked Tree", così lisergica e indianeggiante che sembra davvero spuntata dagli anni 60 (da un disco dei Pretty Things, in particolare), vedi anche il reiterato invito a "trovare se stessi".
"Art Of Persistence" (titolo molto in linea con la filosofia della band…) ci riporta su terreni più familiari, oscura e ossessiva, al contrario del rapido terzinato dell'ignota canzone a seguire. Imbottita di riverberi spaziali, "Ahead" è un'anfetaminica scalata al cielo, un po' Jesus And Mary Chain un po' U2 periodo "Zooropa", dilatata quanto basta per stordirci a dovere. Ben venga, allora, la botta di "Playing Harp For The Fishes" (cantata dal bassista Graham Lewis), traccia d'apertura di "Silver/Lead", in una resa anche più massiccia dell'originale. Dagli stessi solchi pure "Short Elevated Period", altrettanto d'impatto. Curiosamente, le citazioni dall'ultimo lavoro terminano qui: strano modo di promuovere un disco in tour…

Il set si chiude con due esecuzioni ancora una volta senza volto: la prima è una ballata atmosferica dalle tinte shoegaze, la seconda uno schiumoso psych-noise tutto in crescendo, nei paraggi degli A Place To Bury Strangers, con tanto di falso finale più volte riavviato.
Al ritorno, Newman ci ringrazia per aver assistito a uno show "composto per lo più da materiale inedito" (ecco spiegata la fatica nel riconoscere alcuni passaggi della scaletta!) e, quasi a volerci premiare per la pazienza, ci regala una graditissima "Two People In A Room" (brano che i Sonic Youth devono aver mandato a memoria), meno isterica di quella sul capolavoro "154" ma comunque cupa come un attacco di panico in una stanza buia. "Drill", con i suoi frastornanti flanger che la fanno somigliare a una macchina che stenta a partire, tiene fede al titolo trapanandoci le tempie un'ultima, accanita volta.

Al di là del folle repertorio, tutto più o meno come mi aspettavo: un'esibizione corretta ma confusa e spesso opaca, colpa da distribuire equamente tra la loro inerzia e i limiti del locale. Il che, tuttavia, finisce col rivelarsi un imprevedibile punto a favore: in fondo, è stato un concerto di rimasti per altri rimasti, tutto sommato autentico e d'atmosfera, che mi ha dato l'idea di come potesse suonare una roba del genere nell'epoca giusta, chiodo spillato e spada libera. Se è vero che un live è innanzitutto un'esperienza di campo, stasera ho testato "dal vivo" un'intensa immersione sociologico-sensoriale che, a conti fatti, è un motivo più che sufficiente per tornarsene a casa soddisfatti, facendosi strada tra questi equivoci cinquantenni borchiati.