Staggerman

Istantanee per cowboy solitari

intervista di Gabriele Benzing

È l'uomo che barcolla, è il cowboy che non ti aspetti. Si fa chiamare Staggerman, all'anagrafe Matteo Crema. Viene dal lago d'Iseo, ma le sue canzoni confinano direttamente con l'America di Wilco ed Eels. In occasione dell'uscita del suo secondo album "Don't Be Afraid & Trust Me", Matteo Crema ci racconta con passione e modestia l'avventura dell'uomo chiamato Staggerman.

Per cominciare, ci racconteresti qualcosa degli inizi del tuo percorso musicale? Quando e come ti sei reso conto di voler diventare un musicista?
Era il 1993/94, l'anno in cui i Nirvana erano all'apice del successo e si avvertiva quasi fisicamente che l'aria stava cambiando... Io avevo circa tredici anni e dovevo trovare qualcosa di importante, coinvolgente e impegnativo che giustificasse il mio scarso rendimento scolastico. Feci il mio primo corso di chitarra presso la biblioteca comunale del mio paese, e da subito capii che non avrei mai più smesso di suonare, di pensare alla musica e di rincorrere (per molti l'immaturo) desiderio di voler essere un musicista per tutta la vita. Insomma, la musica e il suonare mi divennero necessari come l'ossigeno.

Come descriveresti la scena musicale locale in cui sei cresciuto?
Dalla fine degli anni Ottanta fin verso gli anni Duemila le mie parti sono state una fucina piuttosto prolifica di band e soprattutto di manifestazioni musicali. Peccato che il tutto si sia sempre fermato alla zona circoscritta del lago d'Iseo e molto difficilmente ho visto autori o band nostrane varcare i confini locali.
Ad ogni modo mi ritengo fortunato, perché è stato proprio in questo contesto che ho trovato la possibilità di misurarmi e crescere musicalmente con altri musicisti. Purtroppo ora resistono in pochi e l'ascoltatore medio preferisce la sagra estiva in cui si esibiscono tribute band alla manifestazione musicale che propone brani originali.

Toglici una curiosità: da dove nasce il nome Staggerman?
Non ricordo come mi venne in mente, ma il verbo "to stagger" significa sia "barcollare", insomma non andare esattamente dritti, sia "strabiliare"... mi sembrava adatto per uno che cerca di fare musica in modo estremamente serio, ma che al contempo cerca di non prendere se stesso troppo sul serio.

Il titolo del tuo disco d'esordio, "Tiny, Tiny, Tiny", suona un po' come una dichiarazione di umiltà (cosa sempre più rara di questi tempi, soprattutto nel mondo indie…). Era questa la tua intenzione? E pensi che ci sia ancora spazio, oggi, per la semplicità come via di espressione?
Tutto sommato sì. Con "Tiny, Tiny, Tiny" era la prima volta che mi cimentavo come autore delle canzoni e soprattutto dei testi, quindi volevo sottolineare il fatto che non avessi la pretesa di essere considerato un autore già maturo. Da qui viene anche il titolo del secondo lavoro: "Don't Be Afraid & Trust Me" è una sorta di appello nei confronti di chi lo ascolta... Vale a dire, se avete ascoltato e vi è piaciuto il mio primo disco, cercate di ascoltare anche questo. L'autore è lo stesso, cerca solo di seguire un percorso in cui si sforza di volta in volta di migliorarsi: dategli fiducia.
Per quanto riguarda la semplicità, personalmente la contrappongo a un vizio tutto italiano di guardare più alle doti tecniche del singolo musicista che al risultato finale, che è poi la canzone. Insomma, per dirla semplicemente (per l'appunto) mi sembra che si preferisca molto di più il fumo all'arrosto. Si rimane impressionati dalla voce di un cantante, ma non si ascolta cosa sta cantando; si apprezza il virtuosismo di uno strumentista, ma non si ascolta se quello che sta suonando sta facendo bene o sta solo peggiorando il brano eseguito. Per come la vedo io, un musicista deve sempre cercare di superare se stesso, ma non deve mai dimenticare che il suo fine ultimo è la canzone, non il suo onanismo virtuosistico.

StaggermanLa lavorazione del nuovo disco, "Don't Be Afraid & Trust Me", si è sviluppata in luoghi e tempi diversi, come racconti anche nel video incluso nell'album. Com'è stato il processo di registrazione del disco?
L'idea di registrare in posti diversi è nata dal fonico, nonché coproduttore insieme a me del disco, nonché amico di lunga data Ronnie Amighetti. Io gli dissi che nel disco si sarebbero alternati tre diversi batteristi e che si sarebbero fatte tre diverse sessioni di registrazione. Lui colse la palla al balzo (forse era un po' stufo di dover sempre stare in studio) e propose di trovare tre luoghi diversi in cui registrare.
La prima sessione avvenne a casa di Beppe Facchetti, rinomato e talentuoso batterista bresciano che per amicizia accettò di registrare alcuni brani.
La seconda è stata fatta a casa di Gian Paolo "Pega" Pegurri (altro amico e inestimabile collaboratore di Staggerman: è colui che cerca disperatamente di procacciare concerti per il gruppo e che si sforza di tenermi in carreggiata quando tento di sfuggire ai miei doveri musicali. A conti fatti è la persona che si prende le porte in faccia al posto mio e la figura che più somiglia al manager) che ha messo a disposizione i due piani della sua abitazione per permetterci di registrare in presa diretta la parte di disco suonata dalla band con cui mi esibisco anche dal vivo (Guglielmo Scarsi alle tastiere, Lorenzo Colosio alla batteria e Salvatore Lentini al basso).
Per concludere, siamo andati in studio (il Diesel 24062) per fare le batterie suonate da Fabrizio Finamore e per fare le necessarie sovraincisioni.

Rispetto all'album precedente le tue canzoni suonano come una riflessione più personale, più intima, ma mostrano anche uno spettro sonoro più ampio. Che differenza senti rispetto al tuo disco d'esordio?
Forse la differenza sta nel fatto che sto cominciando a credere di più in quello che sto facendo. Il primo può essere visto come un giocoso esperimento, ora mi sto sforzando di essere più confidente nei confronti di me stesso e di conseguenza di essere più intimo con quello che scrivo. Cerco di impegnarmi a conoscere ciò che sto cantando e non semplicemente a ripetere a memoria una cosa che ho scritto qualche tempo prima.

Tra le righe di "Don't Be Afraid & Trust Me" sembrano affacciarsi più di una volta i panorami della tua terra. Che legame hai con i luoghi da cui provieni? Pensi che quei paesaggi abbiano un'influenza sulla tua musica?
Sicuramente contribuiscono a dare alla mia musica quella venatura country che si percepisce ascoltando entrambi i miei dischi... Ma forse è più una mia suggestione. Mi piace paragonare alla provincia americana il posto in cui vivo.
Penso sia naturale farsi influenzare dai propri luoghi: forse se abitassi in città mi farei condizionare di più dai grattacieli che dal lago.

Qual è per te il momento o il luogo ideale per scrivere una canzone?
Tendenzialmente a casa e quando sono da solo. Di solito mi porto dietro un'idea di base (un riff, una frase, una melodia) per molto tempo, poi alla fine mi viene l'epifania e butto giù tutto di getto. Credo che sia grosso modo il metodo di scrittura anche di molti altri. Mi piacerebbe solo essere meno pigro e molto più prolifico.

L'artwork del nuovo album nasce da alcuni tuoi disegni. Come è nata l'idea?
Sono schizzi che feci quattro o cinque anni fa mentre me ne stavo seduto in attesa dell'epifania di cui sopra. Inutile dire che non ne cavai un ragno dal buco, ma a distanza di tempo trovai il disegno calzante per molte delle cose che ho scritto per quest'ultimo album.

Come vivi il tuo rapporto con le performance dal vivo?
È sempre un misto di sentimenti contrastanti: all'inizio mi manca un po' la voglia di esibirmi, non vedo l'ora che inizi per poi potermene andare alla svelta... Poi si inizia a suonare, apro bocca al microfono e mi sento un idiota ma subito succede qualcosa. I tre con cui sto suonando non sono lì per caso e so che mi stanno tenendo su la baracca, allora mi sforzo di dare quanto posso a loro e al pubblico che abbiamo davanti. Nel tempo in cui avviene tutto ciò, però, siamo arrivati quasi alla fine della scaletta, mi ritrovo carico come una fionda e andrei avanti per altre due ore... Peccato che il limitato numero di canzoni che abbiamo non ce lo permette, così salutiamo e ce ne andiamo tutti a bere dandoci delle pacche sulle spalle perché "non è andata poi così male come credevamo". E alla fine, dei sei che avevamo davanti a sentirci, in due hanno pure comprato il disco.

Che accoglienza ti capita di trovare in Italia rispetto a una musica dal taglio intimamente americano come la tua? Non senti mai il fatto di scrivere in inglese come un limite alla possibilità di un'espressione diretta e senza mediazioni nelle tue canzoni?
Le volte in cui riesco a suonare, devo dire che l'accoglienza, seppur sempre limitata a un ristretto numero di persone, è sempre piuttosto buona... Peccato che sia praticamente impossibile riuscire a suonare dal vivo.
Per quanto riguarda l'inglese, beh, lo uso perché mi sembra una lingua più diretta, quindi mi permette di far passare per credibili anche cose non proprio illuminanti.

L'anno scorso hai partecipato al volume del nostro progetto OndaDrops dedicato alla scena "outlaw country" con una cover della classica "Summer Wine" in duetto con Laura Lalla Domeneghini. Secondo te che cosa occorre per fare proprio un brano altrui?
Devi pensarlo come se fosse tuo senza porti troppe domande riguardo a cosa aveva in mente chi realmente l'ha scritto... So che così facendo si rischia agli occhi altrui di dare forse meno credito all'autore originale, ma non è assolutamente una mancanza di rispetto, anzi, è un modo per potersi casualmente avvicinare alle sensazioni provate da chi l'ha composto.

Un disco che ti ha cambiato la vita (e perché).
Ce ne sono molti e in diversi periodi della mia vita. Per citartene alcuni potrei dirti da "Green Mind" dei Dinosaur Jr. a "Unknown Pleasures" dei Joy Division, da "No More Shall We Part" di Nick Cave a "A Ghost Is Born" degli Wilco, da "Déjà Vu" di Crosby, Stills, Nash & Young a "Welcome To Sky Valley" dei Kyuss, da "Cure For Pain" dei Morphine a "Till The Sun Turns Black" di Ray LaMontagne... e molti, molti altri.
Il motivo? Perché c'era dentro quel qualcosa che stavo cercando e che non sono riuscito a trovare altrove.

Dopo l'uscita del nuovo disco che progetti hai per il futuro?
Cercare di suonare il più possibile dal vivo.