The Weather Machine

Canzoni per scacciare le nuvole

intervista di Gabriele Benzing

Le piogge dell’Oregon non bastano ad adombrare lo spirito di Slater Smith. Sotto l’egida The Weather Machine, le sue canzoni sembrano riuscire sempre a trovare un raggio di luce. Dopo il promettente esordio “Mr. Pelton’s Weather Machine”, il nuovo “The Weather Machine” è la conferma di un formidabile talento di storyteller.

Dagli anni del college alla Willamette University di Salem fino al coinvolgimento nella comunità musicale di Portland, Slater Smith ci racconta la trasformazione degli Weather Machine da progetto solista a band vera e propria. E il suo personale segreto per scacciare le nuvole con un sorriso.

 

Il nome “The Weather Machine” nasce dalla leggenda di un marchingegno capace di influenzare il meteo che circolava nel campus della Willamette University. Per cominciare, ci racconteresti la sua storia?

In realtà, il nome “The Weather Machine” è venuto in mente a un mio amico. È la versione abbreviata del nome originale del progetto, “Mr. Pelton’s Weather Machine”. Il tempo a Salem è terribile, ma in qualche modo, ogni anno, durante le visite primaverili degli aspiranti studenti, c’era sempre bel tempo. Allora nel campus ha cominciato a circolare la voce che il rettore Pelton avesse venduto l’anima per una macchina capace di controllare il meteo. Il giorno prima delle visite di primavera poteva esserci il clima peggiore e più piovoso, ma tutti gli anni, in qualche modo, il giorno dopo era immancabilmente sereno.

Durante il festival musicale del campus, la mia amica Kate ha pensato che “President Pelton’s Weather Machine” sarebbe stato un nome perfetto per una band. L’ho pensato anch’io, per cui le ho chiesto se potevo usarlo e da lì è nato tutto. L’ho abbreviato perché creava un po’ di confusione quando si trattava ancora di un progetto solista. La gente cominciava a pensare che fossi io Mr. Pelton, o finiva per storpiare il nome. Non sai quante volte la gente diceva cose tipo: “Com’è il nome? Mr. Whose-its Wonder Emporium?”. Dopo qualche mese l’ho abbreviato in “The Weather Machine”, ma resta comunque una storia divertente.

 

Come è nata la formazione attuale della band?

Era da un po’ di tempo che volevo trasformare il progetto in una band vera e propria. Il processo di registrazione del disco ha visto coinvolti quattro musicisti chiave – io alla chitarra e alla voce, Colin Robson al basso e alle chitarre, Matthew Cartmill al violoncello e mio fratello minore Tanner Smith alla batteria. Ora che abbiano finito di registrare, abbiamo aggiunto qualche altro musicista, fino a diventare un gruppo di cinque elementi. Dato che Tanner è andato al college a Boston, abbiamo coinvolto Corey Kintzi per i concerti e abbiamo aggiunto il mio compagno di college Jack Martin al basso. Jack è anche un ottimo songwriter e suona in un duo chiamato “Booty & The Bandit”.

Ho incontrato Colin circa un anno fa a un “open mic” nella cittadina di Pacific City sulla costa dell’Oregon. Aveva organizzato la serata per tenersi impegnato mentre rinnovava il suo vecchio garage per trasformarlo in uno studio di registrazione. Colin si era trasferito a Pacific City da New York per realizzare lo studio e lanciare un progetto chiamato “Kiwanda Sound”. Siamo diventati subito amici e abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea che “The Weather Machine” fosse il primo disco realizzato nello studio. Il progetto sarebbe stato impossibile senza Colin. Da allora si è anche aggregato alla band alla chitarra.

Mio fratello Tanner suona la batteria nel disco. In pratica lo abbiamo chiuso in studio per una settimana dopo che è tornato a casa da Boston per le vacanze invernali. Ha fatto un gran lavoro, è uno dei migliori musicisti che conosco.

Dato che Tanner doveva tornare al college, abbiamo reclutato Corey per suonare dal vivo con noi. Si è laureato da poco nel corso di jazz della Portland State University e si è inserito nella band in maniera sorprendente. Ci siamo incontrati dopo che avevo chiesto a un amico comune se conosceva qualche buon batterista. È venuto fuori che Corey lo era. È stato splendido fare la sua conoscenza e ci siamo divertiti un sacco a suonare insieme.

Matt Cartmill, il nostro violoncellista, è un mio buon amico da anni. Siamo andati alle superiori insieme in una piccola città di nome Sisters, in Oregon. Allora non collaboravamo molto dal punto di vista musicale – io stavo imparando a suonare la chitarra e non penso che lui avesse ancora scoperto il violoncello. Da quando abbiamo lasciato Sisters, però, abbiamo suonato parecchio insieme. Matt ha suonato il violoncello anche in “Mr. Pelton’s Weather Machine”. Adesso vive a Eugene, Oregon e sta finendo un corso di laurea in spagnolo. Suona con noi tutte le volte che riesce a fare un salto a Portland.

Ultimo ma non meno importante, Jack Martin. Jack suona il basso con gli Weather Machine ed è un grande elemento da avere nella band. È principalmente un chitarrista, ma è un musicista molto valido ed è passato al basso senza problemi. Jack ed io abbiamo frequentato entrambi la Willamette University, ma non siamo diventati veramente amici fino a quando ci siamo laureati e siamo finiti a vivere a Portland. Jack mi ha contattato quando ci siamo trasferiti in città ed è stato proprio mentre Colin ed io stavamo finendo il disco. È lui che suona l’assolo di chitarra nella coda finale di “Over All The Land”. E anche la voce che si sente alla fine del brano è la sua, così come le armonie vocali in “Little Surrender”.

 

Slater SmithCome si sono svolte la registrazione e la produzione del nuovo album?

Il processo di registrazione è stato incredibile! Ma anche estenuante. Lavoravo a Portland due giorni la settimana e dovevo fare un viaggio di due ore avanti e indietro dalla costa. Ho passato due mesi così e solo adesso sono tornato alla solita routine a Portland.

Anche la produzione è stata una sfida nuova e interessante. A differenza di molti progetti in cui ogni cosa è pianificata prima, abbiamo scritto tutte le parti sul momento. Avevo già l’ossatura dei brani per quanto riguarda chitarra acustica e testi, ma non avevo mai suonato le canzoni con una band. È stato come mettere insieme un puzzle e provare un sacco di pezzi per vedere come si potevano combinare. Abbiamo cominciato con Tanner, che ha scritto le sue parti di batteria dopo che abbiamo messo giù un abbozzo dei brani, e abbiamo coinvolto quasi subito Matt. Tanner e Matt hanno dato un contributo fondamentale a dettare la direzione del disco e sono davvero felice di averli coinvolti in questo modo.

 

Che differenza c’è secondo te rispetto al disco precedente?

Il mio primo progetto, “Mr. Pelton’s Weather Machine”, era molto essenziale. L’ho registrato in una settimana con qualche amico in un granaio. Abbiamo avuto pochissimo tempo e niente soldi. Lo scopo era di ottenere qualcosa da poter offrire alla gente, ma non ero preoccupato di farlo suonare perfetto. Ci sono punti in cui le canzoni non vanno a tempo, in cui c’è troppo riverbero e così via. Tuttavia, quando ho scelto le canzoni da includere in quel disco, ho optato per quelle che potevano suonare bene anche in una veste scarna e ruvida – penso che sia quello che dà fascino al progetto.

“The Weather Machine”, invece, suona un po’ più nel modo in cui ho sognato di fare per anni. Ho una strana contraddizione nei miei gusti musicali: amo profondamente le canzoni folk, ma ho anche solide radici nell’indie-rock e nel rock alternativo. Sono cresciuto ascoltando gruppi come White Stripes, Strokes, Modest Mouse e Killers. Quando la mia famiglia si è trasferita a Sisters sono stato influenzato da un’ampia gamma di artisti folk e folk-revival attraverso il Sisters Folk Festival. Ho cominciato ad ascoltare musicisti come Ryan Adams, Anaïs Mitchell, The Tallest Man On Earth e Josh Ritter. Con “The Weather Machine” mi piace pensare di essere riuscito a coniugare questi due mondi. Penso che il nuovo disco sia un passo in questa direzione.

 

Come mai hai incluso nell’album delle nuove versioni di “Leviathans Get Lonely” e “Back O'er Oregon”?

Ho deciso di registrare nuovamente queste canzoni per infondere loro un po’ di nuova vita. Penso che le spoglie versioni acustiche su “Mr. Pelton’s Weather Machine” siano ancora valide, ma volevo vedere che cos’altro potevamo fare con queste canzoni. Ho sempre pensato a “Leviathans Get Lonely” come a una canzone da fare con una band al completo. L’intento era quello di commentare con leggerezza il movimento Occupy Wall Street e volevo registrare di nuovo il brano finché è ancora di attualità. Ho sempre pensato che avesse bisogno di un suono più pieno e più giocoso. Ci siamo divertiti un sacco a registrare la nuova versione. L’effetto vocale imita il suono di un megafono e lo shuffle della batteria colloca la canzone da qualche parte tra punk-rock e country.

Per “Back O’er Oregon” mi entusiasmava vedere che cosa potevamo fare per aggiungere in maniera sottile una trama al brano. Abbiamo preso molto da “So Runs The World Away” di Josh Ritter. Molti riverberi di chitarra e parti di violoncello danno alla canzone un meraviglioso nuovo sapore. È un brano importante per me e volevo rendergli giustizia.

Un giorno spero di rivisitare tutte le canzoni di “Mr. Pelton’s Weather Machine” con la nuova band. Mi piacciono tutte le canzoni del disco e sarebbe divertente tenerle da parte e aggiornarle per i prossimi album.

 

Ci racconteresti qualcosa di più a proposito della storia in tre atti di Skeleton Jack?

“Skeleton Jack” è una canzone che ho scritto quando ero alle superiori. Volevo registrarla sin da allora, ma è solo con questo disco che ho sviluppato le capacità necessarie e ho acquisito le risorse per farcela.

La prima canzone, “Act I”, è venuta fuori mentre giocavo con alcune idee intorno alla divinità e alle favole. La mia visione di Jack è quella di una sorta di re delle favole, dato che si tratta di un nome che compare in moltissime storie e detti – “Jack And Jill”, “Jack Be Nimble Jack Be Quick”, “Jack e il fagiolo magico”, eccetera. Alla fine mi è venuta in mente l’idea che sarebbe stato interessante rendere immortale il personaggio di Jack. Dato che Jack ha derubato il diavolo, non può andare né in paradiso né all’inferno, perché ha meritato il paradiso offendendo il diavolo (e quindi non può essere punito per questo), ma ha comunque commesso un peccato rubando (per cui non può essere ammesso in paradiso). Questo è il contesto in cui i tre atti si svolgono.

“Act III – Alexei Mikhail” è in realtà la canzone successiva che ho scritto nella serie, ma è successo solo diversi anni dopo. In questo brano, Jack uccide un uomo in una rissa in un bar (ma prima che Jack venga trasformato in scheletro) e la vittima si risveglia miracolosamente nel corpo di un soldato ferito. L’idea è che, per vendicarsi di Jack, il diavolo salva l’anima di un uomo assetato di vendetta nei suoi confronti. Quindi in “Alexei Mikhail” il narratore passa i suoi giorni dando la caccia a Jack.

Ho scritto “Act II” per spiegare la connessione tra le due linee della trama. “Act II” si intitola “Chorus” perché ha la stessa funzione del coro in una tragedia greca: una voce al di fuori del gruppo dei personaggi che offre suggerimenti e spiegazioni su quello che sta accadendo dietro le quinte o che offre una visione dei temi che riguardano la storia.

A parte questo, ci sono una quantità di chicche nascoste nei tre atti. Ad esempio, la corona spezzata viene da “Jack And Jill”, mentre il violino dorato è un riferimento alla canzone “Devil Went Down To Georgia” e anche il nome “Alexei Mikhail” ha una sua importanza simbolica. In più, c’è un po’ di mistero intorno ai personaggi – l’ascoltatore non viene mai a sapere il vero nome di Alexei e non ha modo di sapere con certezza se il narratore in “Act I” e in “Act III” sia o meno la stessa persona. Poi Matt ha avuto l’idea di usare il violoncello come una sorta di strumento del racconto per legare insieme i tre brani, cosa che penso aggiunga molta personalità alla serie di Skeleton Jack.

 

Slater SmithI tuoi versi sono sempre pieni di ironia. Secondo te, qual è il segreto per raccontare una storia con il sorriso sulle labbra?

Non so se c’è un segreto per scrivere canzoni, ma so che posso sempre dire se sto scrivendo una buona canzone se mi ritrovo a sorridere. Non è che una canzone debba essere divertente per essere valida, mi sono semplicemente reso conto che quando scrivo le mie canzoni migliori provo subito un senso di leggerezza e comincio a ridacchiare.

Per quanto riguarda l’ironia, penso che venga fuori perché tendo a prendere le cose noiose o i cliché e a trasformarle in qualcosa di completamente diverso. “Skeleton Jack” è un ottimo esempio del tentativo di reimmaginare un cliché narrativo (una favola) e penso che “Puppet” faccia un buon lavoro nel sovvertire in qualche modo l’immagine di un cliché. Ho avuto bisogno di un sacco di tempo per imparare a scrivere una buona canzone d’amore ed è stato solo quando ho imparato a ridere di me stesso e delle meravigliose assurdità del romanticismo che ho potuto scrivere canzoni come “Puppet”, “Leviathans Get Lonely” o anche “SuperFolk”. Non è che mi siedo a scrivere e dico “Oggi voglio essere ironico”: è una cosa che succede in pratica mentre gioco con le idee. Penso che se cercassi di farlo in maniera premeditata, le canzoni sarebbero molto peggiori.

 

Hai qualche luogo o momento preferito per scrivere una canzone?

Dipende dal punto in cui mi trovo nella vita. Ci sono stati spazi in cui adoravo scrivere canzoni che sono diventati stantii nel corso degli anni, per cui le nuove sistemazioni sono sempre utili e liberanti dal punto di vista creativo. Quanto ai momenti, sfortunatamente finisco a scrivere alcune delle cose migliori alle due o alle tre del mattino. Penso che ci sia qualcosa nella privazione di sonno che riesce a eliminare i filtri che abbiamo nella testa. Di notte sei anche costretto a restare da solo con i tuoi pensieri, per cui ci sono meno distrazioni.

Ultimamente ho scritto una canzone durante una passeggiata notturna. Era la prima volta in assoluto che lo facevo. Nessuna distrazione, solo rigirare i versi nella mia testa al ritmo dei passi. Devo provarci più spesso.

 

Che cosa ne pensi della scena musicale locale in Oregon? Senti di farne parte?

Adoro le comunità musicali in Oregon. Sono cresciuto a Sisters, nei dintorni del Sisters Folk Festival, e ora, da quando vivo a Portland, ho cominciato a incontrare una cerchia di ottimi musicisti. Quello che vorrei dire a proposito delle “scene” musicali è che può essere facile pensare di averne “trovata” una già esistente, ma in una città come Portland ci sono così tanti ottimi musicisti e un tale senso di comunità che mi sono accorto che è quasi meglio creare la propria cerchia di amici musicisti. Per me è stata decisamente una parte fondamentale della formazione della band e sto incontrando sempre più persone brillanti di giorno in giorno.

Portland è davvero una città meravigliosa – non ci sono così tanti soldi come a Seattle o Los Angeles, ma offre ai musicisti l’opportunità di costruire qualcosa a modo loro sin dalle fondamenta.

 

Secondo te quali sono le cose migliori e quelle peggiori del fatto di suonare dal vivo?

Adoro stare sul palco. È il motivo per cui ho deciso di fare musica per vivere. Non riesco davvero a pensare a nulla di negativo. Posso dire che è molto più divertente stare sul palco una volta che accetti il fatto di poter fare errori. Quasi mi aspetto di combinare qualche casino sul palco, perché mi dà l’opportunità di entrare in rapporto con il pubblico in un modo diverso. Se offri alla gente un bel sorriso, e loro sanno quello che sta succedendo, ogni errore può diventare un’opportunità per la performance.

 

Per la realizzazione di “The Weather Machine” avete organizzato una raccolta di fondi su Kickstarter. Dai social media al crowdfunding, che cosa ne pensi delle opportunità di promuovere la propria musica offerte agli artisti dall’era digitale?

Penso che la musica sia un luogo molto divertente. In nessun altro momento della storia è costato così poco realizzare dischi di alta qualità e diffonderli attraverso internet. È un’arma a doppio taglio. Da un lato, è più facile per gli artisti registrare e promuovere il proprio lavoro, e possono cavarsela meglio come imprenditori. Dall’altro lato, questo significa che ci si aspetta che i musicisti facciano un sacco di lavoro prima che le etichette si accorgano di loro e quindi c’è molta più competizione e rumore di fondo da affrontare.

Detto questo, penso che il crowdfunding sia un grande strumento se usato in maniera responsabile. In un periodo in cui c’è così tanta musica e i musicisti devono letteralmente offrire le loro canzoni gratis per farsi notare, il crowdfunding rende possibile pagare non solo per la musica, ma per diventare parte di un’esperienza creativa. Partecipando a Kickstarter o Indiegogo, fan e amici possono aiutare a creare un progetto invece che aiutare semplicemente i musicisti a coprire i loro costi dopo. Dà alla gente una nuova ragione per pagare per la musica.

 

Se potessi collaborare con un altro artista, del presente o del passato, chi sceglieresti (e perché)?

Jack White, senza dubbio. Ho un sacco di eroi musicali, ma lui è stato il primo. Anche se i suoi testi non colpiscono sempre nel segno (ma spesso ci riescono), l’attitudine fa sempre centro.