Rovistando tra le nicchie che l’industria discografica italiana "ufficiale" lascia incustodite, si scoprirà che, da alcuni anni a questa parte, qualcosa si muove nel sottobosco musicale della penisola. In mezzo ad ulivi nodosi e contorti e querce seccate e marcite, sono cresciuti e crescono fronde e arbusti dapprima fragili, ma che, col tempo, si sono irrobustiti e hanno messo radici. Fuor di metafora, l'Italia può ormai contare su una nutrita e valida rappresentanza di gruppi che, assimilando e riadattando la lezione delle band più significative dell’indie anglosassone e americano, hanno portato una ventata di novità, seppur di limitata estensione, nel nostro panorama musicale.
Non si tratta, sia chiaro (e, a parere di chi scrive), di qualcosa di clamoroso, di una rivoluzione per le nostre orecchie: le ispirazioni e i punti di riferimento delle singole band sono ben chiari e, a volte, persino troppo palesi. Però, per quello a cui siamo abituati, è già un passo avanti.
In questo contesto, sono principalmente tre i nomi che hanno destato l’attenzione degli addetti ai lavori: Giardini di Mirò, Yuppie Flu e, in questo specifico caso, Julie’s Haircut.
I Julie’s Haircut nascono in quel di Sassuolo nella primavera del 1994. La prima formazione è a tre elementi: Nicola Caleffi, chitarra e voce; Luca Giovanardi, batteria e voce; Laura Storchi, basso e voce. Nei primi mesi, il collettivo registra una serie di demo e inizia fin dal primo anno di vita a suonare nei pub e nei locali della città e della regione. Fino alla fine dei ‘90, non ci sono novità di particolare rilievo, se non un duplice turnover alla batteria: nel 1995, Giancarlo Frigieri entra nella band, con Giovanardi che passa alla chitarra; poi, meno di due anni dopo, Roberto Morselli rileva lo stesso Frigieri. L’occasione buona arriva nel 1998, quando il gruppo firma un contratto con la GammaPop Records, la casa produttrice del loro esordio sulla lunga distanza nel mercato discografico.
Fever In The Funk House esce l’anno successivo e si dimostra un discreto esordio, pur non ottenendo particolare fortuna a livello commerciale. Il disco, cantato interamente in inglese (come d’altronde quelli successivi) permette subito di cogliere i punti di riferimento e le intenzioni del gruppo, che propone delle canzoni dirette e disimpegnate che si rifanno al sound delle college-band americane e del garage rock più immediato. Esempi di questo tipo sono l’opener "Black T-Shirt" o il singolo "Everybody Needs Someone To Fuck", in cui viene da pensare ai Dinosaur Jr. negli episodi più puliti. Non mancano incursioni nell’hard-blues ("Nuclear Core Blues" o l’ottima "Safe As"), mentre in "Too Much Love" si sente chiara l’eco dei Led Zeppelin di "Rock’n Roll" e "Black Dog".
Gli episodi forse più interessanti sono quelli nei quali il gruppo si discosta dai principali riferimenti e sfoggia anche una certa originalità, come nell’ipnotica "Chip & Fish Brain" o nell’inquieta ballata di "My House Is On Fire".
Nel complesso, il giudizio è certamente positivo, nonostante la dipendenza dai maestri sia ancora pesante. Tuttavia, è già possibile ravvisare una caratteristica che diventerà una costante nell’evoluzione della band: i suoni, anche nei pezzi più aggressivi, sono estremamente curati e puliti, e ciò rende il lavoro molto godibile all’ascolto.
Il nuovo millennio, oltre a una serie di Ep ed esibizioni di maggior importanza, vede l’ingresso nella line-up del tastierista e polistrumentista Fabio Vecchi.
Il secondo disco, Stars Never Looked So Bright, esce nel 2001, sempre per la Gamma Pop.
Citando il film, qualcosa è cambiato. Infatti, accanto a episodi riconducibili al recente passato, come "Stop What You’re Doing Now" o le ballate "Pass The Ashtray" e "Everything Is Alright", emergono elementi che tradiscono determinate ispirazioni e suggeriscono una certa evoluzione. Da una parte, aumenta il debito nei confronti dei Sonic Youth (come in "Sumopower" e in tutti i pezzi cantati dalla Storchi); dall’altra, a parte isolati ed effimeri esperimenti noise (la non molto riuscita "Geza X"), s’intuiscono delle incursioni in territori nettamente psichedelici (essenzialmente nella harrisoniana "Love Session #1"), che tradiscono le possibili (e interessanti) intenzioni future del combo. Per ora si tratta di un episodio fondamentalmente unico e isolato, ma, come vedremo, è anche un preludio a ciò che verrà.
Stars Never Looked So Bright si colloca, nel complesso, su un gradino appena inferiore rispetto al suo predecessore, in quanto meno incisivo e spontaneo e, nel contempo, sospeso tra un passato concreto e un futuro ancora tutto da definire. Manca, quindi, l’unitarietà di Fever In The Funk House, ma la band ne esce sicuramente con nuovi stimoli.
L’album riscuote un successo superiore rispetto al disco d’esordio: lo prova il fatto che la band intensifica le esibizioni live e viene invitata a partecipare a festival anche di un certo rilievo. I Julie’s Haircut suonano a Mtv nell’ambito del programma Supersonic, si esibiscono nel Tora! Tora! Festival con Afterhours, Shandon, Verdena e altri (anche negli anni successivi) e partecipano al Mtv Brand: New Tour.
Il 2003 è un anno ricco di eventi per il gruppo: i Julie’s vengono coinvolti in un tributo ai Pavement e, soprattutto, firmano un contratto con una nuova label, la Homesleep Records (casa che da alcuni anni a questa parte è assurta all’onore delle cronache, mettendo sotto contratto una serie di gruppi promettenti dell’underground italiano), che permette alla band di ottenere una ben più vasta risonanza nel mondo della discografia italiana e non.
La nuova disponibilità di mezzi e risorse dà i suoi frutti nel corso dello stesso anno. Alla fine del 2003, i Julie’s Haircut danno alle stampe il loro terzo album, Adult Situations.
Gli elementi di novità che in Stars Never Looked So Bright erano apparsi abbozzati e ancora non ben definiti, lasciano qui una traccia tangibile e marcata della loro presenza. Il disco si presenta quindi come il più equilibrato e maturo di quelli sinora registrati dal gruppo: viene prestata una maggiore attenzione alla cura del suono, la scrittura e gli arrangiamenti si raffinano, la formazione è più compatta.
La partenza è affidata a "In The Air Tonight" che, da una intro-strofa che richiama atmosfere dei loro colleghi d’etichetta Giardini di Mirò, si trasforma in un brano pop-rock con saltuari inserti di chitarre distorte, più conforme alla loro usuale formula. Segue "Academy Awards", uno dei pezzi più spensierati e trascinanti del disco, sostenuto nel ritornello da un riff di campane e chitarra che centra il bersaglio.
Fin qui, il disco rimane fedele ai canoni che il gruppo ha avuto modo di fissare nei due dischi precedenti, ma l’attenzione si ridesta con "We Are Not Alone". Si tratta semplicemente di un pezzo strumentale di passaggio, ma si rivelerà un brano decisamente premonitore del prossimo futuro. Dopo il singolo "The Power Of Psychic Revenge", piuttosto banale, arriva uno degli episodi più riusciti del disco."The Last Living Boy In Zombietown" inizia con un giro di quelli ormai tipici del gruppo, ma si stempera nella strofa in una melodia malinconica sostenuta dal piano, per poi riesplodere trionfalmente nel ritornello che riprende il tema iniziale. E’ un brano che nei suoi elementi più leggeri richiama certo post-rock d’atmosfera, evitando però di scadere nella tediosità grazie anche a un accurato dosaggio di elementi psichedelici.
Dopo la parentesi di "Skokology", ecco "Marmalade", dove fanno capolino suoni morbidi, che ricordano il Beck di "Where’s At?", e "Fear Don’t Live Here Anymore" in cui, su un andamento tribale, si sovrappongono chitarre in wah-wah e archi e tastiere sintetizzati in un’atmosfera che ricorda parecchio i Motorpsycho di "Let Them Eat Cake". In "The Big Addiction", i Julie’s Haircut da una parte citano sé stessi, richiamando in alcuni accenti "My House Is On Fire" dal primo disco; dall’altra, con la coda che chiude il pezzo, riportano alla memoria un’ impensabile "Sir Psycho Sexy" dei Red Hot Chili Peppers.
Dopo la parentesi da base rap campionata di "Sleeping On the Couch", arriva la degna conclusione: "Private Hell" è infatti uno dei pezzi migliori e più suggestivi dell’album. Da un incipit da ballata notturna e maledetta, il brano si espande fino a trasformarsi in epica melodia: è il ponte che collega i Julie’s Haircut del passato con quelli prossimi venturi. Ascoltando il loro ultimo disco, non si può fare a meno di pensare a questa canzone.
Ultimo disco che esce nel 2006, sempre per la Homesleep Records. Negli anni che distanziano Adult Situations dall’ultima fatica, il gruppo amplia il proprio raggio d’azione partecipando a vari festival e compilation, che ne aumentano la fama. Abbiamo anche una new entry: Andrea Scarfone si unisce alla band nel 2005, dando il suo contributo alla chitarra e al basso.
After Dark, My Sweet è forse il disco più discusso e controverso nella carriera del collettivo emiliano. Alcuni lo hanno tacciato di pretenziosità e arroganza, stroncandolo (quasi) senza mezzi termini; altri lo hanno acriticamente elogiato, al di là degli effettivi meriti. Per chi scrive, si tratta di una scelta coraggiosa e di una decisa presa di distanza da ciò che era stato prodotto in precedenza. Certo, come è stato detto, gli indizi e i prodromi del cambio di rotta sono disseminati in modo discontinuo nei restanti dischi, soprattutto nel terzo.
Ma a convincere della ferma volontà del gruppo di intraprendere nuovi percorsi concorrono alcune indicazioni sulla preparazione dell’album: soltanto quattro degli undici brani che lo compongono sono cantati, diversi pezzi superano abbondantemente i cinque minuti di durata, almeno cinque pezzi sono delle take 1, cioè pezzi suonati una sola volta in presa diretta e registrati così come venivano; c’è infine la partecipazione dell’ex-Spacemen 3 Sonic Boom.
Non bastasse questo, già l’ascolto della seconda traccia lascerebbe poco spazio agli ultimi dubbi. "Sister Pneumonia" è uno dei pezzi più indicativi del nuovo corso che sembrerebbe profilarsi da questo disco, oltre che uno dei brani più riusciti. Si tratta in sostanza di una continua alternanza di crescendo, ricadute e varianti sullo stesso tema, che si ripete identico dall’inizio alla fine. C’è infatti da osservare che la maggior parte dei pezzi si caratterizza per una voluta (e, per certi versi, inevitabile, visto il modo in cui è stato concepito e realizzato il disco) semplicità nella composizione, compensata però da una maggiore attenzione agli arrangiamenti e ai suoni, mai così puliti e nitidi.
L’atmosfera che si respira per tutto il disco è molto sixties, ma corretta da sonorità decisamente moderne, che assicurano un’immediatezza e un impatto superiori. Si passa poi a "Death Machine", altro pezzo in presa diretta con un azzeccato giro di synth e alle speculari "Liv Ulmann" e "Ingrid Thulin", uscite dalla stessa session, ma poi elaborate e rimaneggiate al punto da prendere strade diverse: la prima sfiora il kraut-rock, la seconda è di floydiana memoria.
I fantasmi del passato ritornano nella youthiana "Purple Jewel" e nella bella "Afterdark", ma sempre filtrati attraverso una lente psichedelica. Lente che si opacizza un poco nelle prolisse "Gemini Pt. 1 & Pt. 2" e "My Eyes Have Seen The Glory", che comunque non sfigurano.
Nonostante la seconda parte scada un po', l’album è sicuramente il più continuo e uniforme nella carriera del gruppo e anche nei momenti di stanca non perde l'atmosfera generale che lo pervade. Un esperimento riuscito, insomma, sebbene l’opera possa facilmente essere attaccata per il suo "anacronismo".
Certo, il discorso cambierebbe se il gruppo si fermasse a questa tappa e smettesse di progredire, nel qual caso la formula diventerebbe molto probabilmente tediosa, se non insopportabile. In ogni caso, va ascritto alla band il merito di esser riuscita, nell’arco di soli quattro dischi, a cambiare più volte e gradualmente volto. Ci sono, dunque, tutte le premesse per auspicare una ulteriore evoluzione nel loro prossimo, imminente disco.
Nel 2009 i ragazzi escono con Our Secret Ceremony, un doppio ambizioso, nel complesso discreto, ma che soffre delle consuete pecche da doppio album, ovvero mancanza di concisione, ridondanza di idee, tendenza alla ripetizione di certuni elementi etc.
Il primo disco – intitolato “Sermons” - è fatto di canzoni che ricalcano il consueto modello Spacemen 3/Sonic Youth, e fin qui tutto bene, perché le capacità compositive dei Julie’s Haircut non si discutono. Notevoli le vertiginose e krautedeliche “Mountain Tea Traders”, “The Shadow, Our Home” e “The Devil In Kate Moss”, mentre “Origins” va a pescare dai Silver Apples senza intermediazioni.
Nel secondo disco (“Liturgy”) le cose invece non funzionano altrettanto bene. Qui i pezzi, corti o lunghi che siano, sono strutturati come delle suite di kraut-rock, che si arricchiscono di sfumature cangianti durante l’incedere, ma il cui il ritmo uniforme tende alla lunga a stancare.
Insomma, una sforbiciata qua e là non avrebbe fatto male ma tant’è. Di ciccia saporita ve n’è comunque molta.
La tendenza della band a diluire la loro produzione con Ep, singoli e split, si ripete con The Wildlife Variations, in cui il motorik krauto e il suono lisergico inglese - senza dimenticare il primo post-punk sempre d'Oltremanica - trovano una bella sintesi. L'Ep si compone di quattro eccellenti tracce, affascinanti nella composizione quanto nella cura dei suoni.
"Dark Leopards Of The Moon" ha un incedere figlio dei Neu! quanto dei Joy Division, soprattutto nelle linee del canto, vicine alle atmosfere di "Closer", mentre la seconda traccia "Johannes" ama illuminare il buio con candele profumate che evocano gli Spacemen 3 quando giocavano con l'acustico ma anche con le chitarre effettate.
La suggestione rimane alta anche nella tesa e ipnotica "Bonfire", tanto scura e misteriosa quanto poteva essere un brano del mai dimenticato Colder. Sonorità e cantato soffuso tengono incollati all'ascolto grazie a un arrangiamento teso e sempre sul filo del rasoio.
Percussivo e ciclico il finale, con "The Marriage Of The Sun And The Moon", una celebrazione musicale che predica il vangelo dei Can.
The Wildlife Variations è proprio una sorta di rito, in cui l'uomo trova la sua natura originaria, magari utilizzando tutti quegli strumenti tecnologici, e in questo caso anche musicali, che la contemporaneità propone. I Julie's Haircut sono divenuti così i moderni "buoni selvaggi".
Con il loro sesto Ashram Equinox la band emiliana sfonda nuove barriere, rinunciando alle liriche cantate e offrendo un vero e proprio tributo naif al rock teutonico: "Ashram", "Taotie", "Taarma" sono numeri che passano in rassegna pattern continui e gallerie di effetti elettronici, in una sorta di rilettura lounge di corrieri cosmici e jazz-rock.
La loro folgorazione per il Miles Davis spaziale si concretizza in una cover della sua "Shhh/Peaceful" (2016).
La medesima vena lisergica responsabile degli ultimi ambiziosi parti è ancora al centro del nuovo capitolo Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin (2017). Nuovi gioielli sono gli 11 minuti di “Zukunft”, una jam di blues spaziale senza parole in crescendo di mormorii, strepiti cacofonici e sax, e di certo la rampa di lancio Hawkwind-iana di “Deluge”. La voce torna a farsi sentire nel clima esoterico di “The Fire Sermon”. Il resto svaria da buoni esperimenti a ruffianate, ma è comunque il disco che corona degnamente il ventennale del complesso modenese, intransigente, irrazionale, sempre bramoso di tensione.
Nell'autunno del 2019 è la volta di In The Silence Electric, di nuovo edito dalla londinese Rocket Recordings. Abbandonate le suite del recente passato, la forma-canzone si plasma attraverso trip lisergici che possono prendere le sembianze di scorribande motorik verso spazi inesplorati (“Sorcerer” e la notevole “Until The Lights Go Out”) o viceversa muoversi quasi senza strutture definite, come sospese in un limbo onirico e quasi cinematico (“Anticipation Of The Night”).
E proprio il contrasto netto tra momenti di involuzione - anche e soprattutto interiore - ed elevazione spirituale va a muovere l'invisibile copione dell'album, ben simboleggiato dalle fotografie anni 70 di una Annegret Soltau legata in fili dai quali è chiamata a liberarsi. Ecco dunque che le ombre lunghe di “Emerald Kiss” si fanno quasi opprimenti negli echi jazz del sax, mentre le calme apparenti di “Darlings Of The Sun” e di “Pharaon's Dream” si riverberano in eco messianiche che vanno semplicemente a esaurirsi o, viceversa, a sciogliersi in caos strumentali. Sui generis, verrebbe da dire, sono le soluzioni adottate per “Lord Help Me Find The Way”, un blues per traversate interstellari, e per una “In Return” immersa in uno straniante contesto ambientale.
Contributi di Davide Bassi e Antonio Ciarletta ("Our Secret Ceremony"), Gianluca Polverari ("The Wildlife Variations"), Michele Saran ("Ashram Equinox", "Invocation And Ritual Dance"), Fabio Guastalla ("In The Silence Electric")
Fever In The Funk House (GammaPop Records, 1999) | 6,5 | ||
The Plague Of Alternative Rock (Ep, Gamma, 2000) | |||
Stars Never Looked So Bright (GammaPop Records, 2001) | 6 | ||
The Power Of Psychic Revenge (Ep, Homesleep/Sony, 2003) | |||
Adult Situations (Homesleep Records, 2003) | 7 | ||
Marmalade (Ep, Homesleep/Sony, 2004) | |||
After Dark, My Sweet (Homesleep Records, 2006) | 7,5 | ||
Our Secret Ceremony (A Silent Place, 2009) | 6,5 | ||
The Wildlife Variations (Ep, Trovarobato, 2012) | 7 | ||
Ashram Equinox (Woodworm, 2013) | 6,5 | ||
Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin (Rocket Recordings, 2017) | 6 | ||
In The Silence Electric (Rocket Recordings, 2019) | 7 |
Sito ufficiale | |
Myspace |