Desta curiosità il ritorno a Roma dei Black Mountain.
Giunti al terzo album e confermate, migliorandole, le premesse dei primi due lavori, la band canadese si è oramai ben insediata nel gotha degli artisti che stanno scrivendo la storia della musica rock nel nuovo millennio.
Il loro hard-rock psichedelico, con forti radici folk, va allargando le schiere di adepti non solo fra i nostalgici di certe atmosfere 70's, tanto che il Circolo degli Artisti, in una piacevole serata di inizio Ootobre registra un ragguardevole numero di presenze.
Aprono la serata i londinesi Goldheart Assembly, impeccabili nel proporre il curato alt-pop contenuto nel loro esordio "Wolves And Thieves".
Seguono i Night Terrors, da Melbourne, Australia, fautori di un aggressivo synth-rock fortemente sperimentale, tinto di shoegaze benché privo di chitarre (sono due tastiere a creare tutti i tappeti occorrenti), con il leader Miles Brown protagonista della scena con un basso iper-distorto e un avveniristico theremin.
I Black Mountain non deludono le attese, mettendo in mostra inaspettate doti di umiltà (sono loro stessi a montare e smontare i propri strumenti sul palco) e disponibilità (concedendosi per parecchio tempo ai fan immediatamente dopo la fine del concerto).
Nel mezzo ci sono un'ora e trenta di musica maestosa, ora ruggente, ora carezzevole, con al centro dell'attenzione Stephen McBean, chitarrista prezioso con non celate derivazioni Zeppelin/Sabbathiane, e la cantante Amber Webber, un po' timida nell'atteggiamento, ma perfetta e rendersi complementare a McBean negli intrecci vocali.
Non sono certo semplici comprimari il tastierista iper-vintage Jeremy Schmidt, il proteico bassista Matt Camirand e l'arcigno batterista Josh Wells, tutti occupati in importanti side-project nei momenti lasciati liberi dalla Montagna Nera, tanto da rendere la band una sorta di supergruppo.
McBean conduce il quintetto di Vancouver in uno show inappuntabile, che oltre a fornire un saggio dell'eccellente materiale contenuto nel recente "Wilderness Heart", ripesca i due episodi più clamorosi dell'omonimo esordio ("Don't Run Our Hearts Around" e "Druganaut", i quali chiudono rispettivamente la prima parte dello show e il bis), e il meglio di "In The Future", con il pubblico che dimostra di apprezzare soprattutto la formidabile accoppiata "Wucan"-"Tyrants", che da sola varrebbe già il prezzo del biglietto.
Atmosfere molto anni Settanta, chitarroni sontuosi, riff sanguinolenti, ma anche sublime psichedelica, e le cristallerie acustiche di "Buried By The Blues" e "Stay Free".
Un vero e proprio greatest hits quello concepito dai Black Mountain, che propongono il meglio della loro produzione, senza alcuna caduta di tono.
Fra i pezzi di "In The Future", oltre a quelli già citati, vengono ripescate le inarrivabili maestosità di "Queens Will Play" (nella quale la Webber pare una novella Grace Slick), la corsa mozzafiato di "Evil Ways", le rotondità pop di "Angel" e l'anthem "Stormy High".
Fra i nuovi brani trovano meritata collocazione le sabbathiane "Let Spirits Ride" e "Wilderness Heart" (ma è posta a inizio scaletta con la band ancora alla ricerca del giusto bilanciamento fra i suoni), la zeppeliniana "Roller Coaster" e l'irresistibile "Old Fangs".
Saranno pure derivativi, ma nessuno oggi è in grado di ossequiare certe sonorità bene quanto loro, dando una bella dimostrazione a tutti coloro i quali sostengono che il rock oggi non avrebbe più niente da dire.
È chiaro che ci troviamo nel campo minato del citazionismo selvaggio, ma i Black Mountain stasera ne escono da grandiosi trionfatori, vestendo i propri spunti classic hard-rock, psych e acousitc folk di una modernità inaudita, speziando il tutto con un'organicità di fondo che rende lo show (e del resto anche i loro lavori in studio) decisamente superbo.
Emerge la sincera emulazione di un suono e di un'attitudine tipica del rock anni 70, ma tramutata in esecuzioni che non intendono sposarsi con il passato, né tantomeno con la contemporaneità, bensì generarla, con l'intento di creare una nuova via musicale, peraltro rinforzato dal dedalo di side project dei singoli musicisti (dalla lisergica psichedelia dei Pink Mountaintops di McBean, al cosmic-pop dei Lightning Dust di Wella e Webber, dal country-folk dei Blood Meridian di Camirand ai lavori strumentali di Schmidt, nascosto sotto l'alias Sinoia Caves).
Quindi non saccheggiare, o riportare pedissequamente le atmosfere di un tempo, bensì gettare le basi per un nuovo discorso che da quell'atteggiamento intende riprendere soltanto l'approccio primordiale.
Dischi come "Wilderness Heart" e concerti come questo continuano a dare un senso alla nostra oscura attività di piccoli scrivani del sogno elettrico.
Superbi fautori della resurrezione dell'hard-rock, i Black Mountain hanno reso così personali i propri riferimenti, da riuscire a suonare oggi come nessun'altra band del pianeta, diventando loro stessi il nuovo termine di paragone per chi da ora intenderà emulare questi suoni.
Da consigliare a tutti coloro che ritengono i Battles o i Pinback (cito due nomi a caso, ma ce ne sarebbero a decine) troppo patinati per essere credibili, e a tutti coloro che si sono emozionati l'ultima volta per un disco con "Songs Of The Deaf" dei Queens Of The Stone Age.
Se questo è il futuro, sogniamo tutti lunghi capelli e un ritorno all'immaginario hippy!