C’era una volta, c’era una volta. Il vento tra i salici, un sospiro d’amore, un poeta laureato. C’era una volta, e il tempo non ritorna. “Once upon a time/ Never comes again”, cantava Tony Bennett. La voce arrochita di Bob Dylan gli fa eco sul palco degli Arcimboldi. Inclina l’asta del microfono, ravvia la chioma arruffata, allunga le sillabe in un sussurro: “Never comes again”.
Era il giugno del 1988 quando Dylan inaugurò il suo “Never Ending Tour”. Oggi, a trent’anni di distanza, è ancora lì che si può trovarlo ogni sera, sulla scena in qualche angolo del mondo. Ma questo non significa che lui sia sempre uguale. “Things have changed”: anche questa volta lo ricorda subito alla platea, sin dalle prime note – cupe e confuse – del suo concerto milanese. Le cose cambiano perché non restiamo mai gli stessi, perché il tempo e la vita scavano dentro di noi. La mappa delle rughe racconta il cammino che abbiamo percorso, la strada che ci ha portato fino a dove siamo. Fino a una notte battuta dalla pioggia di aprile, nella penombra dei riflettori, con quell’eleganza retrò da Tin Pan Alley: “I'm well dressed, waiting on the last train”.
Ed eccolo, il fischio dell’ultimo treno. È il treno per Duquesne, o forse il treno per un luogo molto più lontano. Il contrabbasso di Tony Garnier guida la locomotiva, la pedal steel di Donnie Herron traccia lieve la linea dei binari. Il treno fischia come il richiamo che annuncia la stazione finale del viaggio: “I can hear a sweet voice steadily calling/ Must be the mother of our Lord”. Dylan sale a bordo di quel treno, pronto a raccontare ancora una volta tutto quello che vede scorrere dal finestrino: le ombre del passato, la follia del mondo, la caducità dell’esistenza. È proprio questo il senso profondo che percorre tutta la serata, dalle foglie d’autunno prese in prestito da Prévert fino alle porte del cielo di una “Tryin' To Get To Heaven” mai così colorata di speranza.
Prima però tocca a un trittico di vecchi brani, regalati con amorevole riverenza dal vecchio menestrello. Abbandonata definitivamente la chitarra, Dylan baratta le tastiere di qualche anno fa per un pianoforte vero e proprio. E le sue parti sembrano sorprendentemente acquistare una nuova musicalità, dalla morbidezza di “Don't Think Twice, It's All Right” all’energia di “Highway 61 Revisited”, fino a scivolare nella carezza nostalgica di “Simple Twist Of Fate”. A lato del palco, accanto alla statuetta del premio Oscar, un busto in marmo della Poesia lo osserva con aria condiscendente, mentre sciorina con voce di cartavetra i versi che lo hanno condotto al Nobel.
Non è lecito aspettarsi rivoluzioni, dalle scalette dylaniane degli ultimi anni: il mestiere ha preso sempre più il posto dell’inventiva. La novità, stavolta, viene però dalla capacità del padrone di casa e della sua fidatissima band di riscrivere non tanto i classici (presentati tutti con grande fedeltà, a parte la significativa eccezione di un’incerta “Tangled Up In Blue”), quanto piuttosto i brani del repertorio meno datato. Così, “Honest With Me” scopre una nuova e insospettabile vivacità sugli affondi taglienti di Charlie Sexton, mentre “Tryin' To Get To Heaven” (nonostante le bizze di un impianto capriccioso) si spoglia di ogni residuo velo di amarezza.
Dylan sputa con ostinazione i versi di “Pay In Blood”, gioca a travestirsi da Muddy Waters sul blues didascalico di “Early Roman Kings”, imita il romanticismo di “Blue Moon” in “Soon After Midnight”. “Love Sick” sfodera la consueta veemenza, mentre il boogie di “Thunder On The Mountain” prende un ritmo spezzato e irrequieto. Ma a suscitare l’ovazione più calorosa è l’ennesima rilettura del girone dantesco di “Desolation Row”: dopo un avvio in sordina, Charlie Sexton e Donnie Herron si lanciano in un trascinante duetto chitarra/mandolino e Dylan stesso sembra farsi coinvolgere nella danza, piegando i versi per inseguire la melodia.
Rispetto all’ultimo passaggio agli Arcimboldi, nel 2015, le cover di vecchi standard si fanno meno invadenti (un segnale che il famigerato arco dedicato al “Great American Songbook” volge al termine?). Solo tre brani, uno da ciascun capitolo del trittico “Shadows In The Night”/“Fallen Angels”/“Triplicate”, in cui Dylan si porta al centro della scena per impugnare il microfono con piglio da crooner. L’unico altro caso in cui abbandona il pianoforte è per recitare con enfasi l’ultimo estratto da “Tempest” della serata, l’inno al rimpianto di “Long And Wasted Years”: rimpianto prima di tutto per la verità del cuore, che il tempo lotta instancabile per consumare.
Il rito dei bis, a quel punto, non è altro che un passaggio obbligato: il violino di Donnie Herron regala un profumo agreste a “Blowin' In The Wind”, per poi lasciare spazio al dipanarsi caustico di “Ballad Of A Thin Man” (lontanissima però dalla magnetica versione sfoderata nel tour del 2011). Al pubblico nemmeno una parola, nemmeno un saluto. Per Dylan la parola è solo quella cantata. Ecco perché non è ancora sceso dal palco. Ecco perché, alla fine, un concerto vale sempre più di un Nobel.