Non è la nostalgia. È qualcosa di più personale, a spingere Bob Dylan ad alzare la posta. A mettere alla prova anche i fan più incalliti, dopo già due dischi di riletture di vecchi standard del Grande Canzoniere Americano, sfoderando addirittura un triplo album all'insegna della stessa formula. "Non è un viaggio lungo il viale dei ricordi o uno struggimento per i bei tempi andati", replica seccamente a chi evoca l'aggettivo nostalgico. "È qualcosa di accessibile e con i piedi per terra, qualcosa che è qui ed ora".
Ma che cosa possono avere di attuale, queste canzoni elegantemente demodé? Troppo facile liquidarle come l'ennesimo espediente di Dylan per prendersi gioco delle aspettative, o ancora peggio come il frutto di una qualche sorta di passione senile. Cinque raccolte consecutive non possono essere semplicemente un vezzo: che significato hanno davvero per Dylan?
Un primo indizio viene dalla struttura stessa del nuovo album: la suddivisione dei brani nei tre cd di "Triplicate" non ha nulla di casuale, ma risponde a un rigoroso ordine tematico. Tre capitoli ben distinti, ognuno con il proprio titolo ("'Til The Sun Goes Down", "Devil Dolls" e "Comin' Home Late"), chiamati a formare un unico concept. Come dire che lo scopo di Dylan non è soltanto rendere omaggio al passato, ma comunicare qualcosa di sé.
"C'è così tanto della mia personalità, nei versi di queste canzoni, da permettermi di concentrarmi solo sulle melodie e sugli arrangiamenti", ha confessato a Bill Flanagan presentando "Triplicate". Sembra paradossale: il Nobel per la letteratura che si cala totalmente nell'immediatezza in apparenza un po' leziosa dei testi firmati dai parolieri di Tin Pan Alley. Ma i paradossi, si sa, sono l'arma preferita di Dylan.
Il secondo indizio lo offre lo scrittore Tom Piazza nelle prime righe delle liner notes dell'album: "Spesso serve una vita intera per imparare le cose più importanti, e di solito finiscono per essere anche quelle più semplici. Forse così semplici da non essere traducibili in parole".
La chiave di lettura comincia a farsi più chiara: il punto è proprio la semplicità. O meglio, la sincerità. Perché è attraverso la semplicità delle parole altrui che Dylan sembra non avere più bisogno di nascondersi. Qualcuno doveva scrivere queste canzoni al posto suo. Per permettergli di mostrarsi per una volta senza travestimenti, con quell'umile e profonda consapevolezza della condizione umana che solo le lezioni impartite dalla vita sono capaci di insegnare.
Non c'è da sorprendersi, allora, che le interpretazioni di "Triplicate" privilegino ancora una volta l'essenzialità. Chi ha già ascoltato i precedenti "Shadows In The Night" e "Fallen Angels" non troverà rivoluzioni: stessi collaboratori, stessi strumenti, stesso approccio vintage alla registrazione. In apertura dei tre dischi Dylan sceglie i brani più movimentati, quelli che mettono maggiormente in evidenza la sezione di fiati condotta da James Harper. Se però "I Guess I'll Have To Change My Plan" e "Day In, Day Out" cadono inaspettatamente nella trappola di ricalcare certi arrangiamenti stucchevoli da vecchio musical di Broadway, "Braggin'" va a collocarsi tra gli episodi migliori del lotto, con una leggerezza un po' svagata che avrebbe fatto bella figura tra le pagine di "Love And Theft" o "Modern Times".
Il resto delle scalette (a partire dal brano scelto come primo antipasto dell'album, "I Could Have Told You") si dipana come da copione all'insegna di un torpore dai toni più languidi, con la pedal steel di Donnie Herron a racchiudere ancora una volta un'intera orchestra nelle sue carezze. Ed è proprio l'uniformità dell'insieme a rendere più impegnativo che mai l'affronto delle trenta tracce di "Triplicate". È un lungo crepuscolo accanto al caminetto, una maratona di vecchie pellicole in bianco e nero (evocate direttamente dalla celeberrima "As Time Goes By" di "Casablanca"). Ma arrivare fino in fondo tutto d'un fiato non è decisamente un'impresa per tutti.
"One day you turn around and it's summer/ Next day you turn around and it's fall/ And the springs and the winters of a lifetime/ Whatever happened to them all?": a partire dallo sguardo malinconico di "September Of My Years", è l'inesorabilità del trascorrere del tempo a dominare il primo disco di "Triplicate". Che cosa resta, quando ci si guarda indietro nell'autunno della vita? Il ricordo di una ragazza con il chiaro di luna negli occhi, come nella sognante "Once Upon A Time", il batticuore accompagnato dalla cornice placida dei fiati di "That Old Feeling". Ma più di tutto il senso della promessa quasi stretta tra le dita di "This Nearly Was Mine", quel tentativo di arrivare ad afferrare il paradiso in cui si riassume in fondo tutta la vita: "This promise of paradise, this nearly was mine".
Agli amori perduti tocca il ruolo principale nel secondo capitolo dell'album, tra le atmosfere swing di "The Best Is Yet To Come" e il fremito delle spazzole di "But Beautiful". E la bellezza di un volto di donna trascolora lentamente nella Bellezza con la lettera maiuscola: "Where is the one/ Who'll end the search I'm making?", si chiede Dylan sulle note di "Where Is The One". "È una canzone che non avrei mai potuto scrivere io", ammette. "Ha i nervi troppo scoperti. Ti lascia troppo indifeso. Preferisco non avventurarmi in territori del genere, specialmente quando devo scrivere una canzone".
L'ultima tappa del viaggio sentimentale di Dylan è la strada verso casa. Charlie Sexton impreziosisce "Stardust" con le sue tessiture di chitarra, Tony Garnier al basso guida come sempre le danze. "Cominci chiedendoti perché hai comprato un pigiama blu", riflette Dylan citando il testo del primo brano della raccolta, "I Guess I'll Have To Change My Plan", "e finisci a chiederti perché sei nato". "Why Was I Born", per l'appunto, è il titolo della canzone con cui si chiude "Triplicate": un interrogativo già echeggiato dalle voci di Billie Holiday e di Ella Fitzgerald, che Dylan scava con tutta la ruvida delicatezza di cui è capace.
Voce e melodia, è tutto qui il cuore delle interpretazioni di Dylan. Una voce che si distende come non mai nelle sfumature, alla ricerca di quella che lui stesso definisce un'"intonazione più circospetta e interiore". Il mondo lo celebra come scrittore, lui riafferma di voler essere prima di tutto un cantante. Come Frank Sinatra, perché no: "Tu e io, amico, abbiamo gli occhi azzurri", gli aveva detto The Voice quando si erano incontrati negli anni Novanta. "Veniamo da lassù, non come tutti questi altri", aveva aggiunto indicando il cielo notturno pieno di stelle. "Mi ricordo di avere pensato che forse aveva ragione", chiosa sornione Dylan. Se potesse fare cambio con il Nobel per il crooning, probabilmente non ci penserebbe nemmeno un secondo.
07/04/2017