Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla
(Eugenio Montale, da “I limoni”)
C’erano le locuste, quel giorno. Il loro canto in lontananza era più dolce di qualsiasi elogio.
Nel giugno del 1970, l’Università di Princeton assegnò una laurea ad honorem a Bob Dylan. Era solo il primo dei riconoscimenti accademici che avrebbero costellato la carriera del songwriter americano. E forse proprio per questo Dylan ha sentito il bisogno di raccontare quel giorno in una canzone. “Day Of The Locusts”, l’ha intitolata: un incubo canicolare in cui l’unica via d’uscita sembra essere la fuga.
“Quando venne il mio turno di accettare il diploma, l’oratore che mi presentava disse più o meno che mi ero distinto in carminibus canendis”, ricorda Dylan nel primo volume della sua autobiografia, “Chronicles”. Poi, l’oratore aggiunse che Dylan continuava a essere “l’autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della Giovane America”. “Feci quasi un salto. Un tremito mi scosse tutto, ma rimasi senza espressione. La turbata coscienza della Giovane America! Non riuscivo a crederci. Ci ero cascato un’altra volta. Avrebbe potuto dire molte cose, avrebbe potuto almeno accennare alla mia musica”.
Sono passati quasi cinquant’anni, da allora, e Dylan ha ricevuto ormai ogni genere di premi. Grammy, Oscar, Medaglia della Libertà, persino il Pulitzer. E ora, il Nobel per la letteratura. Chissà se avrà sentito ancora il canto delle locuste. Chissà se avrà pensato ancora che avrebbero potuto almeno accennare alla sua musica. Il giorno dell’annuncio, Dylan è salito sul palco a Las Vegas e ha attaccato come tutte le sere con “Rainy Day Women #12 & 35”. Al Nobel, manco a dirlo, nemmeno un accenno. L’Accademia svedese ha riferito di non essere riuscita a mettersi in contatto con il vincitore. Dylan è sempre Dylan.
Non che i premi, per lui, non significhino nulla. Non li ha mai rifiutati, compreso il diploma di Princeton: “Ne avevo bisogno. Comunque lo si guardasse, toccasse o annusasse, comunicava rispettabilità e conteneva qualche traccia dello spirito dell’universo”. Nel 2012, in una lunga intervista a Rolling Stone, Mikal Gilmore gli ha chiesto per chi accettasse tutti i suoi riconoscimenti: “Li accetto per me e solo per me. Non li considero sotto nessun’altra luce e non passo molto tempo a pensarci sopra”.
C’è una buona dose di vanità e di senso di riscatto, nel ricevere la legittimazione del mondo accademico: tutte cose per cui l’ego dylaniano ha da sempre un debole. Il che non vuole necessariamente dire, però, che gli interessino davvero. Non quanto la musica.
A pochi minuti dalla notizia dell’assegnazione del Nobel, la polemica ha subito invaso il web. Che cosa c’entra Bob Dylan con il Nobel per la letteratura? Barack Obama contro Jonathan Franzen, Alessandro Baricco contro Francesco De Gregori. Ovvero, l’ennesima riproposizione della vecchia diatriba: Bob Dylan è un poeta o no? Roba che si stenta a credere possa apparire ancora di attualità: come scriveva Alessandro Carrera nel suo “La voce di Bob Dylan”, “la domanda stessa genera un senso di noia, emana un effluvio di metà anni Sessanta, rievoca un mondo perduto di giornalisti male informati e di commentatori sprezzanti”. La materia prima perfetta, insomma, per occupare i social media in qualche disputa senza fine.
Il fatto è che rischia di sfuggire il punto della questione. C’è davvero bisogno di dire che le canzoni di Dylan sono poesia per dare dignità artistica alla popular music? Non c’è in fondo un inconfessabile senso di inferiorità anche nei proclami di chi difende a spada tratta il valore letterario dei versi dylaniani? Ben vengano i premi, se servono a ribadire che un songwriter non è un semplice intrattenitore. Del resto, non è la prima volta che il Nobel per la letteratura rivela di avere confini incerti (e di non essere immune dalle tentazioni mediatiche). Ma se l’assegnazione del Nobel a Dylan dovesse significare che la canzone può essere considerata arte solo in quanto si risolva in letteratura, allora più che una conquista finirebbe per essere un’abdicazione.
Dylan, dal canto suo, non si è mai considerato veramente un poeta. “Le mie poesie sono scritte in un ritmo di distorsione non poetica”, scriveva nelle liner notes di “Bringing It All Back Home”. “Una poesia è una persona nuda (...) Qualcuno dice che io sia un poeta”. “Wordsworth e Shelley sono poeti. Ginsberg è un poeta. Io non sono un poeta”, ha aggiunto ancora più esplicitamente ai tempi dell’uscita di “Time Out Of Mind”. E in una delle celebri interviste del 1965, rispondendo direttamente alla fatidica domanda (“Si considera più un cantante o un poeta?”), ha sfoderato una delle sue tipiche rivelazioni in forma di sciarada: “Mi considero soprattutto un song-and-dance man”. Ancora una volta, si torna allo stesso interrogativo: e se in realtà l’equazione Dylan-poeta (o canzone-letteratura) non fosse altro che la riduzione più facile?
Se Dylan è un poeta, lo è rigorosamente da autodidatta. Per dirla con Montale, sta dalla parte delle pozzanghere, non degli acanti: per quanti premi gli si possano assegnare, l’etichetta di poeta laureato non farà mai per lui. La sua è una scrittura fatta di “amore e furto”, di appropriazione appassionata e impudente, che siano ballate folk o versi di Rimbaud. In “Love And Theft” ha attinto a piene mani a “Confessioni di uno Yakuza” di Junichi Saga, in “Modern Times” alle poesie di Henry Timrod. Ma quello che per i cattedratici è plagio, per lui non è altro che il metodo intorno a cui è sempre ruotata tutta la tradizione folk: “Tutti possono farlo tranne me”, ha sbottato nel 2012 parlando sempre con Rolling Stone. “Chi ha mai sentito parlare di Henry Timrod? Chi l’ha letto ultimamente? Chi l’ha portato alla ribalta? Se credete che sia così facile citarlo, provateci e poi vedete quanto andate lontano…”.
Il nocciolo del problema l’aveva già messo a fuoco in tempi non sospetti Alessandro Carrera, nell’intervista concessa proprio a OndaRock in occasione dei settant’anni di Dylan: “Non avrei niente in contrario a vedere il premio Nobel per la letteratura assegnato a Dylan, ma perché mai lo dovrebbe ricevere? Se esistesse un premio Nobel per il gesto, per la voce, per la presenza scenica, per la fusione di voce, testo e musica, per l'arte della performance insomma, allora benvenuti Fo e Dylan, o magari anche Caetano Veloso, ma la letteratura è un'altra cosa. (…) Assegnare a Dylan il premio Nobel per la letteratura negherebbe quella che è la sua caratteristica principale e assolutamente unica, cioè la sua profonda oralità, il fatto che tutto ciò che Dylan fa è una voce, viene dalla voce e ritorna alla voce. (…) Un premio alla letteratura lo ridurrebbe a essere un poeta neanche tanto meglio di altri poeti, mettendo in ombra quello che è il suo vero contributo, di avere creato un'arte che spesso si fonda su una vera e propria rivolta contro la scrittura”.
Non è un caso, allora, che Sara Danius, nell’annunciare a nome dell’Accademia svedese l’attribuzione del Nobel per la letteratura a Dylan, abbia citato Omero e i lirici greci, “che scrissero testi che dovevano essere interpretati o ascoltati anche con l’accompagnamento di strumenti musicali”. Dylan appartiene alla stirpe degli aedi, dei rapsodi, dei trovatori. La sua dimensione è quella della tradizione orale: la poesia della voce, prima ancora che quella della scrittura. Forme di espressione che, anche senza bisogno di scomodare gli studi di linguistica di Ferdinand de Saussure, non si possono semplicemente sovrapporre. Perché l’oralità non è fatta solo di parole, ma anche di respiro, intonazione, ritmo, corporeità. Tutte componenti inscindibili - tanto quanto la musica - di quella particolarissima arte chiamata canzone.
Dylan ne è sempre stato più consapevole di molti dei suoi esegeti: “Io lavoro all’interno della mia forma d’arte”, ha spiegato a chiare lettere. “Ci lavoro con le regole e le limitazioni di questa forma. È l’arte dello scrivere canzoni. Ha a che fare con la melodia, col ritmo e poi, fatto questo, tutto scorre. Tutto diventa tuo”. Un’arte che Dylan ha imparato dalla tradizione folk, dove la canzone è fatta di formule, archetipi, ripetizioni: gli ingredienti tipici dell’oralità.
Come ha detto Tom Waits commentando la notizia del Nobel, “prima che i poemi e i racconti epici venissero messi per iscritto sono migrati sui venti della voce umana e nessuna voce è più grande di quella di Dylan”. “Some people they tell me/ I got the blood of the land in my voice”, potrebbe chiosare Dylan, citando i versi della sua “I Feel A Change Comin’ On”. Una voce che precede la parola, una voce fatta di polvere e fuliggine, di ombre che portano dentro di sé la memoria di un intero universo mitico. A qualcuno interessa davvero decidere se abbia più o meno valore della letteratura?
Non è una questione di gerarchia, al fondo, ma solo di vocazione: “Tutti abbiamo una chiamata, no? Qualcuno è chiamato a qualcosa di grande, qualcuno a qualcosa di umile. La mia chiamata non è diversa da quella di chiunque altro. Alcuni sono chiamati a essere buoni marinai, altri a essere buoni contadini, altri a essere buoni amici. Quello che conta è dare il meglio in qualsiasi cosa tu sia chiamato, qualsiasi cosa tu debba fare”.
I brani che seguono non sono altro che questo: la testimonianza della vocazione di una voce che viene dal sangue della terra. Non con l’intento più o meno ozioso di dimostrare se Bob Dylan sia davvero all’altezza del Nobel, ma per cercare (anche tra le pagine meno inflazionate del suo sterminato canzoniere) le tracce di quel quid che gli accademici di Svezia hanno voluto celebrare: la capacità di creare “nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”.
Gates Of Eden
All’inizio fu la canzone folk. Ma per portare la grande arte in un juke-box, per usare le parole di Allen Ginsberg, occorreva il terremoto di “Bringing It All Back Home”. Un terremoto fatto non solo di elettricità, ma anche di una lingua inedita per la popular music. “Gates Of Eden” è pura poesia beat, con tutti i suoi eccessi e tutto il suo impeto visionario. Aladino e William Blake, angeli cowboy e vitelli d’oro, in una galleria che anticipa quella (ancora più torrenziale) di “Desolation Row”. Alla ricerca di un oltre capace di svelare la chiave del mistero della realtà: perché non ci sono verità fuori dai cancelli dell’Eden.
The kingdoms of Experience
In the precious wind they rot
While paupers change possessions
Each one wishing for what the other has got
And the princess and the prince
Discuss what’s real and what is not
It doesn’t matter inside the Gates of Eden
Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat)
Arthur Rimbaud, il poeta che si fece veggente, è il nume tutelare per eccellenza di “Blonde On Blonde”. Di suggestioni simboliste, però, i versi di Dylan sono sempre stati intrisi. Soprattutto in “Street Legal”, uno di quei controversi capitoli degli anni Settanta che solo tardivamente hanno trovato la rivalutazione della critica. “Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat)”, il brano finale del disco, è una cavalcata che si ispira più o meno direttamente alle “Illuminazioni” di Rimbaud (e in particolare alla struttura di “Enfance”), inanellando riflessi al neon, oscure profezie e sentieri diretti alle stelle.
The truth was obscure, too profound and too pure
To live it you have to explode
In that last hour of need, we entirely agreed
Sacrifice was the code of the road
Brownsville Girl
Cosa resterà degli anni Ottanta dylaniani? I dischi della “trilogia cristiana”, certo (con il vertice di “Every Grain Of Sand”), ma anche una serie di tesori inaspettati, disseminati in album tutto sommato mediocri come “Knocked Out Loaded”. È il caso di “Brownsville Girl” (“New Danville Girl” nella prima stesura, con un esplicito riferimento alla ballata interpretata anche da Woody Guthrie). Un brano che coniuga la decostruzione temporale studiata in “Tangled Up In Blue” con il taglio narrativo di una sceneggiatura cinematografica (non a caso frutto della collaborazione con il drammaturgo Sam Shepard). Il risultato è un’enigmatica spirale metafilmica, che ruota intorno a una vecchia pellicola con Gregory Peck, “The Gunfighter”, come in una sorta di lungo western affabulatorio.
Something about that movie though, well I just can’t get it out of my head
But I can’t remember why I was in it or what part I was supposed to play
All I remember about it was Gregory Peck and the way people moved
And a lot of them seemed to be lookin’ my way
Highlands
“Time Out Of Mind” ha segnato un altro spartiacque decisivo, nella metamorfosi del songwriting dylaniano. La scrittura si incentra sempre più sull’accostamento di brevi epigrammi, ciascuno dotato di vita propria: “poesia gnomica”, l’ha definita il critico americano David Mikics, versi fatti di “frammenti di sapienza misteriosa”, echi di uno stile “portentoso e oscuro”. Gli oltre sedici minuti di blues sfibrato di “Highlands”, però, sono qualcosa di più: un monologo interiore, un flusso di coscienza onirico che annulla tempo e spazio, in cui i versi del poeta scozzese Robert Burns diventano l’allegoria di un altro luogo. Un luogo in cui non sentirsi più “prigionieri in un mondo di mistero”.
Well my heart’s in the Highlands wherever I roam
That’s where I’ll be when I get called home
The wind, it whispers to the buckeyed trees in rhyme
Well my heart’s in the Highlands
I can only get there one step at a time
Ain’t Talkin’
La Bibbia è dappertutto, nelle canzoni di Dylan. Nei sermoni di “John Wesley Harding” e nelle allucinazioni di “Highway 61 Revisited”, nelle visioni apocalittiche di “Infidels” e nelle cronache fuori dal tempo di “Tempest”. “Ain’t Talkin’”, posta a suggello di “Modern Times”, è il pellegrinaggio attraverso un giardino mistico che ha più a che vedere con le spine del Getsemani che non con i frutti dell’Eden. Alle soglie della fine del mondo, nel giardino deserto non sembra esserci traccia del giardiniere. È Dio che ha abbandonato l’uomo, si chiederebbe T.S. Eliot, o è l’uomo che ha abbandonato Dio? Dylan risponde riprendendo silenzioso il cammino nel misterioso sabato del tempo in cui si compie l’esistenza umana. È questo che da sempre fanno i pellegrini.
Ain't talkin', just walkin’
Through the world mysterious and vague
Heart burnin', still yearnin’
Walking through the cities of the plague
20 tracce di letteratura dylaniana |
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