05/12/2018

Charlotte Gainsbourg

Fabrique, Milano


Signore e signori buonasera, vi diamo il benvenuto dagli studi televisivi della BBC a Londra, dove tra qualche istante Gary Numan ci presenterà il suo upcoming tour "Living Ornaments ’79", in partenza a breve da...
Ah no, scusate, ci siamo sbagliati.
Ciak, si rigira, azione. Fabrique, Milano, annus domini 2018. Un gioco perfetto di tubi fluorescenti in plexiglass al neon su un palco altrimenti buio, scarno e marziale. Atmosfera algida e fasci di luci bianche proiettate in orizzontale come lame taglienti, una scenografia gelida che mette in azione la macchina del tempo riportandoci, come un Revox al contrario, agli albori della new wave.
Lei, Charlotte, ninfetta di voce e di fisico nonostante gli anni, giubbino alla Adam Ant e immancabile grandeur francese: c'è carisma, presenza scenica, charme e timidezza, sguardo magnetico e all’occorrenza divertito.
Il neon, quando si illumina, disegna tante porte. La più grande a centro palco dove è posizionato il piano elettrico, postazione preferita dalla chanteuse per tutto il concerto, le altre sparse qua e là senza un ordine apparente.
Bisogna varcarle, queste porte, per entrare nel mondo non così dorato della Gainsbourg, dove la musica si mescola alla vita e ai conti che questa le ha presentato, ai ricordi e al peso a volte insopportabile che un cognome così ingombrante comporta.

Porta # 1, o del synth-pop
Che poi è la vera chiave di lettura della serata. Musicisti in camice bianco, ombre sinistre che si muovono sugli strumenti, pronti a concelebrare una messa di modernariato pop. Synth vintage ovunque, mellotron e moog, modulari appesi alla parete a fondo palco a pennellare per lo più suoni in total french-pop primi anni Ottanta. Il risultato è un mix irresistibile di music bubblegum e atmosfere spensierate, sbarazzine, a tratti adolescenziali, dove "Amoureux solitaires" gioca a rincorrersi con la leggerezza pop e i cori di Plastic Bertrand (che pure non era francese di nascita ma nell'immaginario collettivo sì). E sullo sfondo "Heart Of Glass" e le prime feste delle medie, "Paradise" di Phoebe Cates e "Il Tempo delle Mele".
E poi la voce, roca e sensuale al punto giusto anche quando si esprime nella doppia lingua nello stesso brano, così lontana da quelle attuali tanto celebrate. Nossignore, Charlotte  non è la Del Rey o Florence Welch o St. Vincent. Gioca piuttosto a fare la Vanessa Paradis, ma con più argomenti e più malizia, è una Lio 2.0, o magari la lolita Alizee.
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Porta # 2, o delle colonne sonore
Già l’intro di "Lying With You" che apre lo show (con un ritornello che da solo valeva il costo del biglietto), sembra provenire direttamente da un thriller/horror a firma Dario Argento con un arpeggio sepolcrale di synth che fa tanto Goblin di "Profondo Rosso".
Associare la Gainsbourg al cinema è automatico, ma nulla a che vedere con i film di Lars Von Trier che pure le hanno regalato visibilità e tanti bei premi (Cannes su tutti). No, qui trionfano gli anni 70, dal succitato Argento agli altri maestri del brivido (Fulci, Bava, Carpenter), e ci mettiamo pure Jean Pierre Melville con i suoi noir a tinte poliziesche, che a momenti chiudendo gli occhi ti immagini Alain Delon, in un regolamento di conti della mala, sgommare sulla mitica Citroen DS.

Porta # 3, o della discofunk
E qui ci mette lo zampino il produttore SebastiAn (e di riflesso Guy De Homem Christo, vale a dire metà Daft Punk), il cui apporto è evidente nella splendida cavalcata electro "Deadly Valentine", che pesca dal Moroder più in forma, quello con Donna Summer per intenderci, l'incedere disco e un groove irresistibile, specie nella lunga coda finale. E pure nel funky elettronico bollente di "Sylvia Says", grazioso omaggio nemmeno troppo velato alla buonanima di Prince. O nella sezione ritmica di "Paradisco", alla "Another One Bites The Dust" con effetti di chitarra a ricamare. Manca solo una strobo per fare del Fabrique una stilosissima sala disco.

Porta # 4, o del french touch
Non potevano mancare le classiche atmosfere eteree e sognanti alla Air, disseminate con parsimonia e buon gusto qua e là nella setlist, e più evidenti in brani come "Kate" e soprattutto "Ring A Ring O'Roses". Perché se è vero che artisti come Air, Jarvis Cocker e Beck, tutta gente cresciuta col poster di Gainsbourg in cameretta, l’hanno aiutata in gioventù, confezionandole su misura i primi album, bisogna avere il coraggio di dire che il cosiddetto french touch non nasce a fine anni 90, ma nel preciso istante in cui papà Serge e mamma Jane tirano fuori dal cilindro quel capolavoro seminale di "Histoire Of Melody Nelson" (1972), dove senti gli Air appena 27 anni prima degli Air.
Charlotte, quando gli illustri genitori erano in studio di registrazione, albergava già in pancia della mamma, e chiamalo transfer di memoria, chiamalo Dna, chiamalo geni che si tramandano, fatto sta che questo benedetto french touch lei lo aveva dentro ancora prima di venire al mondo.

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Porta # 5, o della catarsi
Ci voleva "Rest" con relativo tour promozionale per liberarsi definitivamente dei fantasmi del passato, delle paure fanciullesche, efficacemente rappresentate qui da un coccodrillo gigante ("Les Cocodriles"). E allora sì, dai! Cantiamo per la prima volta da adulta le canzoni paterne ("Charlotte Forever", e ancora di più "Lemon Incest", unico precedente nel 1984, lei appena adolescente seduta sulle gambe malferme di papà), esorcizziamo dolorosi flashback, incubi ricorrenti mai sopiti (quando in obitorio vede spuntare fuori dal lenzuolo le gambe nude del genitore, disteso sul tavolo di marmo ("Lying With You"), celebriamo chi non c’è più ("Kate" e "Les Oxalis", dedicate alla sorella morta suicida pochi anni fa, con tanto di tenerissima introduzione), omaggiamo la poetessa maledetta Sylvia Plath, anche lei suicida ("Sylvia Says").

Squarci di luce, istantanee di vita, bagliori fulminanti che irradiano da una donna che ha fatto pace con se stessa e con il suo passato, e ha vinto la scommessa di essere (anche) una cantautrice.
Un live tra i più belli visti a Milano quest’anno.