Fondato negli anni 90 da Perry Farrell dei Jane's Addiction e attivo da più di vent’anni, Lollapalooza non è più il festival indie che era un tempo, piuttosto sembra diventato una specie di multinazionale dei festival. È ormai qualche tempo che il format, un tempo di stanza nella sola Chicago, si è espanso e ogni anno aggiunge nuove location al suo cartellone; in Sudamerica (Cile, Brasile e Argentina) come in Europa (Francia e Germania, alle quali dal 2019 si aggiungerà la Svezia). L’ingigantimento del Lollapalooza ha certamente generato lo smarrimento dello spirito indie che un tempo contraddistingueva la manifestazione, ma ne ha, d’altro canto, esteso il potenziale in termini di generi toccati e pubblico raggiungibile. E così, condensati in due giorni, ti trovi act mescolati quasi schizofrenicamente: i Kraftwerk sullo stesso palco di The Weeknd, Dua Lipa su quello dei National, i Wolf Alice che suonano a due passi da Armin Van Buuren e David Guetta. Tanta attenzione è dedicata anche a numerosi performer locali di ogni edizione, presenti in ogni palco e ad orari mai penalizzanti.
L’organizzazione della variante berlinese del Lollapalooza, giunta quest’anno alla sua terza edizione, è letteralmente perfetta. I palchi minori sono posizionati, inframezzati da weingarten e piacevoli zone ristoro, intorno all’Olympiastadion. Il Perry Stage, palco dedicato alle performance techno e house più scalmanate, è circoscritto – e quindi infossato - all’interno dello stadio, in modo che non disturbi le altre esibizioni. I due main stage si trovano invece nell’immenso Olympiapark, hanno line-up che non si sovrappongono mai e che, grazie a quindici minuti tra un’esibizione e l’altra, permettono al pubblico oceanico di spostarsi agilmente dall’uno all’altro.
Giorno 1
Giusto il tempo di farci un’idea su come il festival funzioni, sull’ubicazione dei palchi e – altrettanto importante - delle stazioni rifornimento birra ed eccoci assistere a una prima, divertentissima esibizione. Quella delle Gurr sull’alternative stage. Le tre ragazze e il batterista avranno anche poco più di vent’anni, ma dominano il palco con energia e irriverenza. Il loro power pop è ruvido quanto basta, ogni tanto sale di volume e si concede discrete derapate di feedback, ma è nei ritornelli altamente canticchiabili che dà il suo meglio. Le Gurr sono divertentissime anche tra una canzone e l’altra, quando prendono in giro e coverizzano Calvin Harris, David Guetta e Beyonce.
Le lasciamo a una canzone dalla fine per dirigerci al main stage, dove stanno per salire gli Years & Years. Quando la formazione capitanata da Olly Alexander fa ingresso sul palco, che ha adesso la forma di una piramide a gradoni, gli schermi proiettano immagini futuristiche della peccaminosa città di “Palo Santo”. Dal vivo il loro electro-pop è molto più duro che su disco, i battiti sono possenti e i Korg scuotono l’aria con le loro vibrazioni. Ma non risiede soltanto nella musica la forza della loro esibizione: ballerini di ogni colore e orientamento sessuale si impegnano in acrobazie, abbracci e baci, dando così vita a una vera e propria festa di libertà e inclusività. Un act tenero, politico e necessario. Va solo sottolineato che, come temevamo, i pezzi nuovi non reggono il confronto con quelli del primo disco.
Veniamo da lavoro, belli stanchi, è così è il momento di un riposino sul prato tra i due main stage, allietati da una Warsteiner gelida e dalle note, lontane ma penetranti, della chitarra di Ben Howard. Il folk del cantautore inglese live si arricchisce di sfumature elettroniche, che lo rendono più cupo e cerebrale. Finita la birra, ci avviamo verso il palco dove da lì a poco si sarebbe esibito Casper, insindacabilmente un'istituzione rap tedesca.
Accompagnato da una vera e propria band che consta di addirittura due chitarristi, Casper è di quanto più lontano si possa immaginare dalle tendenze trap e autotunnare dell'hip-hop odierno. Le sue basi sono dure e cupe, i sintetizzatori e le chitarre elettriche disegnano scenari mutuati da darkwave e industrial – non a caso Blixa Bargeld ha prestato la sua voca alla straordinaria “Lang Lebe Der Tod”. Il rapper di Bösingfeld è una furia, salta come una molla, si agita, inveisce e aizza una folla enorme come fosse nulla. Quando Marteria – altra istituzione rap locale, con il quale Casper condivide un Ep e un movimento anti-neonazista - lo raggiunge a sorpresa sul palco per un buon quarto d’ora, è delirio totale. Andrebbero fatti ascoltare entrambi ai sostenitori della trap italiana, davvero.
Probabilmente a causa del fatto che c’entrano poco col cartellone di questo sabato, i National registrano una delle audience più magre dell’intera giornata. Ma buon per noi, che ci godiamo uno show intenso e impeccabile larghi larghi, in piena comodità. Buoni due terzi della scaletta sono dedicati agli ultimi due lavori della band, ma la qualità costante della produzione della indie-band di Cincinnati non fa rimpiangere l’assenza di molti classici. Non mancano comunque le varie “Fake Empire” – introdotta da un’amara introduzione su quanto, da quando è stata scritta, le cose invece che migliorare siano peggiorate - e “Mr. November”, corredata dalla proverbiale camminata di Matt Berninger tra il pubblico. Molto interessante anche come alcuni brani dal vivo siano stati praticamente stravolti. “Graceless”, ad esempio, incupita e irrobustita da screzi elettronici, o “Terrible Love”, allungata da un finale supersonico con la batteria in balia di una tempesta.
Quando ci avviciniamo al palco di The Weeknd è ormai troppo tardi per trovare una buona posizione, ma grazie ai maxischermi e a un ottimo settaggio audio c’è poco da rimpiangere. I suoni sono micidiali e la voce di Abel Makkonen Tesfaye che, fa bene ricordarlo, non usa autotune, è spettacolare. Le hit si susseguono senza soluzione di continuità e, tra fuochi d’artificio e folgoranti neon, l’alternative R&B del producer canadese si fa ballare che è una bellezza.
Ci sarebbe il tempo di andare a ballonzolare da Guetta, ma la ressa al Perry Stage e la nostra età non più giovanissima ci fanno preferire un bel falafel nel prato, un'ultima birra e poi casina.
Giorno 2
Lo scenario che ci si presenta ai tornelli del parco olimpionico è diametralmente opposto a quello del giorno precedente. Non c’è calca, sparuti gruppi di persone si avvicendano ai controlli alla spicciolata. Anche l’età media degli avventori ci sembra molto più alta rispetto al giorno precedente – e come sarebbe possibile il contrario, con i Kraftwerk nome più grosso dell’intero cartellone. Certo, ci sono gli Imagine Dragons a ringiovanire l’atmosfera, ma non possono certo contare sui numeri di un Weeknd. Come già sottolineato, noi non siamo più giovanissimi e questo cambio di canovaccio, che prevede meno file e meno sudore, non può che farci piacere.
Come prima portata scegliamo i Friendly Fires, offerti dall’alternative stage. Nulla di esaltante, va detto, ma la ritmica arzilla e precisa, le incursioni funk e un Ed Mcfarlane scatenatissimo sono un bell’incentivo a rimanere per l’intera durata del set. I brani migliori sono quelli provenienti dai vecchi lavori dei ragazzi, ma il singolo di quest’anno, l’estivissima “Love Like Waves”, fa la sua porca figura.
Appena terminata l’esibizione del trio dell’Hertforshire, ci affrettiamo verso il main stage, perché non siamo tra i fortunati che hanno avuto il piacere di ascoltare gli Oasis live e una capatina da Liam Gallagher ci pare allora doverosa. Parka nero da mod, frangia tagliata con l’accetta, il microfono ben sopra la bocca; il look e le mosse di Liam sono le stesse di una ventina di anni fa. E così le canzoni. Difatti il rapporto tra pezzi da solista e cover degli Oasis è impietoso, e dunque rivelatore di quanto lo stesso Gallagher creda poco nella sua produzione in proprio. La band che accompagna Liam è granitica e il loro britpop sferragliante arriva dritto e forte alla pancia, ma l’effetto karaoke è molto forte e così preferiamo lasciare a metà e dirigerci verso qualcosa di meno iconico, ma certamente più stimolante.
Torniamo all’alternative stage, dunque, dove ha cominciato a suonare da poco Jorja Smith. La voce della giovane cantante R&B inglese è davvero il miracolo che si dice in giro, languida ma potente, controllata il giusto, lasciata vibrare in preda all’emozione quando necessario. “Blue Lights” l’hanno cantata tutti a memoria, segno di quanto il seguito di Jorja si stia allargando, ma è il livello medio della setlist a stupire, anche grazie a una band raffinata e mai invadente. Deliziosa anche la cover di “No Scrubs” delle TLC.
Piuttosto che mischiarci al pubblico – enorme, va detto – degli Imagine Dragons, preferiamo goderci una pinta e il buon vecchio Fink all’ombra dello stadio, sempre sull’alternative. Il folk del cantautore di Bristol è roco e fumoso, avvolgente e carico di suggestioni. Ogni pezzo viene allungato dalla band in sterminate code di blues psichedelico; “Warm Shadow”, ad esempio, ipnotica e serpeggiante, perfetta per disperdere pensieri distratti in uno degli ultimi tramonti d’estate. Non che non lo pensassimo prima dello show, ma il barbuto Fin Greenall meriterebbe molta più attenzione di quanta ne abbia raccolta finora.
Passeggiando entusiasti verso il palco dove i Kraftwerk di Ralf Hütter avrebbero celebrato in 3D la loro carriera leggendaria, non possiamo fare a meno di ascoltare gli ultimi brani della scaletta degli Imagine Dragons, e va ammesso che proprio male non suonano, anzi. “Thunder” è gommosa e pimpante e il sound è tirato a lucido ma tosto, come i pettorali che Dan Reynolds, ormai seminudo, sfoggia con fierezza.
Sarà che senza i Kraftwerk la musica non sarebbe la stessa, sarà che è la prima volta che assistiamo a un loro show, ma nonostante la loro età, è quella del quartetto tedesco la performance di questo Lollapalooza che porteremo nel cuore. La prima cosa a lasciare il segno è il sound: le canzoni sono le stesse di trenta o quaranta anni fa, ma i bassi potenti e i sintetizzatori leggermente rimaneggiati le fanno suonare tremendamente moderne. Anche lo spettacolo in 3D, dei quali i Kraftwerk sono parte integrante grazie alle loro tutine fosforescenti, è incredibilmente azzeccato. La tecnologia 3D applicata all’iconografia volutamente retrò del collettivo genera un effetto straniante, ed è un commento perfetto alle trame disegnate dai quattro synth. Più che un greatest hits, e in parte lo è, la scaletta proposta è un intenso viaggio a tappe lungo la storia della band. Lo spettacolo è così eccellente nella sua interezza che ciascun presente non potrebbe che indicarne un vertice differente. Infiniti.