C’è una certa stranizza nell’aria stasera. Assistere a un concerto tutti imbavagliati con mascherine Ffp2, rigorosamente seduti a distanza di sicurezza dal palco, non è esattamente la cosa più naturale del mondo. Il dilagare dei contagi da Omicron e un diffuso senso di timore per ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni contribuiscono ad aumentare il senso di straniamento, così come quegli inaspettati vuoti sugli spalti della bellissima Sala Santa Cecilia dell’Auditorium. Sarà stata la paura? Del resto, anche per chi scrive si tratta del primo concerto al chiuso dall’inizio della pandemia e qualcosa vorrà pur dire.
Ma a infondere a tutti la carica necessaria è la protagonista della serata, la rediviva Carmen Consoli, tornata dopo una lunga pausa di sei anni con un disco pienamente riuscito come “Volevo fare la rockstar”. Un nostalgico baule di ricordi, in cui sprazzi fiabeschi e concrete immagini di una dimensione familiare rassicurante si sposano a una riflessione matura sulle miserie dell’oggi e sulle speranze per un domani meno violento e disumanizzante. Insomma, quell'invito a "respirare col cuore" e a "riaccendere i sogni e i lumi della ragione" contenuto nel bel singolo che ha anticipato il disco ("Una domenica al mare"). Un messaggio ribadito dal prologo teatrale del concerto, in cui la voce della Cantantessa nel buio della sala ci ricorda che “non dobbiamo rottamare i sogni perché i nostri desideri da qualche parte aspettano ancora”. E si intitola proprio “Il sogno” il primo dei tre atti in cui è suddiviso il concerto, tutto dedicato a “Volevo fare la rockstar”.
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La curiosità per la resa live dell’album, però, è parzialmente delusa dalla scarnissima line-up sul palco. Se nell’intervista di qualche settimana fa Carmen Consoli ci aveva confidato di sognare “un quartetto d’archi, un trombone, un chitarrista, un basso, un percussionista e tastiere un po’ vintage, tipo Rhodes e Hammond in contrasto con giocattolini tipo Roland”, la realtà è decisamente più brutale: ad accompagnare la Cantantessa e la sua chitarra acustica, infatti, è soltanto l’elettrica del fido Massimo Roccaforte, per un set ancor più spartano di quello che la cantautrice siciliana temeva che fosse imposto da eventuali limitazioni alla capienza.
Peccato, perché la grazia degli arrangiamenti e l’armoniosità melodica del disco, in cui brillano archi, tastiere e perfino scampoli orchestrali, avrebbero meritato una resa live più corale. Ma pur nella essenzialità di questa esecuzione elettro-acustica, le canzoni di “Volevo fare la rockstar” si confermano ben confezionate, come eleganti abiti cuciti su misura all’ultima Carmen, più dolente e riflessiva rispetto a “Gli anni mediamente isterici”, ai quali sarà invece dedicata la seconda parte del set.
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Camicione nero, capelli lunghi lisci a coprire il viso, avvinghiata alla sua chitarra, la Cantantessa si ripropone in splendida forma vocale, ripercorrendo le tracce del disco mentre sullo sfondo scorrono le installazioni video curate da Donatella Finocchiaro. Ecco allora susseguirsi l’intimismo soul in stile Motown di "Sta succedendo", le tenere emozioni infantili di "L’aquilone" (con le foto di Carmen bambina sullo sfondo), la radiosa melanconia di “Una domenica al mare”, l’andatura vagamente surf dell’eccentrica "Mago magone" (apologo sugli apprendisti stregoni di ieri e di oggi), la melodia vintage di "Le cose di sempre", la delicata riflessione di “Imparare dagli alberi a camminare”, gli incubi de “L’uomo nero” (con immagini di minacciosi clown a evocare certi politici contemporanei), prima del gran finale della title track, struggente amarcord in cui i ricordi più dolci dell’infanzia si mescolano agli spettri delle stragi di mafia (“Ma come può saltare in mente a quello di dormire in mezzo al traffico e alla gente?”).
Una breve pausa e il drumming tempestoso di Marina Rei, che abbozza la intro di “Seven Nation Army”, annunciano il cambio di scenario della seconda parte, dedicata agli “Anni mediamente isterici”. Carmen ora tiene fede alle aspirazioni da rockstar: attacca l’acustica a due amplificatori e scatena tutta la sua carica selvaggia nella sempre splendida “Per niente stanca”, con i suoi sempre impervi sbalzi di tonalità, e nella velenosissima “Besame Giuda”, riscaldando l’audience un po’ intorpidita nei suoi bianchi bavagli. Le vibrazioni sensuali di “Geisha” fanno da preludio a un potente brano della stessa Rei, “Donna che parla in fretta”, alla cui verve femminista segue un breve scambio di battute tra le due amiche, che raccontano del loro primo incontro e del feeling che l’ha sempre accompagnate. Poi si discetterà anche di un polpettone scomparso e di altre buffe amenità sull’asse Roma-Catania.
Non delude neanche l’imprescindibile “Confusa e felice”, che dimostra, una volta di più, come le corde vocali della Consoli siano a prova d’acciaio, così come il seguito della tranche più energica del concerto, dove trovano posto storici inni rock della Cantantessa come “Sentivo l’odore”, “Contessa Miseria e “Venere”, con il loro vibrante condensato di invettive, sensualità e disillusione.
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L’ultimo atto del concerto si intitola “L’amicizia” e piazza subito un colpo a sorpresa: l’irruzione sul palco dell’ospite Max Gazzè. Il cantautore romano si cimenta al suo basso in un virtuosistico solo, apprezzatissimo dal pubblico, fino al ritorno sul palco di Consoli e Rei per un’esecuzione corale di “Stranizza d’amuri”, commosso omaggio a Franco Battiato che l'ex-pupilla che da giovanissima reinterpretò "L'animale" riesce a rendere personale e toccante al tempo stesso. Sullo sfondo appare l’immagine del Maestro, occhiali neri e codino sulla sedia a dondolo, e scatta un applauso contagioso che si trasforma in una standing ovation tale da mettere quasi in imbarazzo i musicisti. Non resta allora che attaccare subito i brani successivi, a cominciare dalla celeberrima “L’ultimo bacio”, che non lesina certo altre emozioni, anche se mancano i "mille violini suonati dal vento", così come l’intensa “Blunotte”, che suggella un altro dei momenti più intensi del set.
Una Consoli finora insolitamente taciturna sembra ora sciogliersi un po’, chiacchiera con Marina Rei, racconta di pranzi e cene natalizie, prima di riportarci idealmente alla “Bambina impertinente” di inizio millennio, quella che rivisitava a modo suo il mito di “Orfeo”, e che ci cullava sensualmente tra le sfumature bossanova dell’altra hit “Parole di burro”. Quindi, la travolgente parata di personaggi grotteschi di “A finestra” (“era la preferita dal pubblico di New York, forse gli faceva un effetto world music”, ci ha raccontato la sua autrice), con la romana Rei che si unisce al canto in catanese stretto, per un’esecuzione trionfale che infiamma il pubblico.
Dopo i saluti di rito, c’è tempo per un solo bis, ovvero la prima hit, “Amore di plastica”, che Carmen intona da sola alla chitarra, mostrandosi “per niente stanca” dopo due ore e mezzo di concerto in cui ha messo ancora una volta a dura prova le sue formidabili corde vocali. E mentre scorrono i titoli di coda sulle malinconiche note di “Volevo fare la rockstar”, resta la soddisfazione per un’esibizione convincente unita a quella stranizza che, in fondo, non se n’è mai andata via, forse nemmeno sul palco. Ma forse anche a questo bisogna abituarsi in tempi di convivenza forzata con il Covid-19.