Fuori dall’hype (o quasi). Anche se di acqua sotto i ponti ne è passata a dovere dalla visita milanese dei Fontaines Dc, e le impressioni della penna di questo articolo sono fuori tempo massimo, peggio del caricamento di una pagina web ai tempi di Internet Explorer, il loro nome è sempre e comunque sulla bocca di tutti, tra nomine a premi, wrapped di Spotify e bilanci di fine anno. Una data, quella del 4 novembre, alla quale era vietato mancare, tanto da aver scatenato la cosiddetta “FOMO” anche nelle persone più insospettabili, e che fino a poco prima dell’uscita di “Romance” quasi non sapevano chi fossero i Nostri o li avevano sempre guardati con un certo snobismo (e poi in fondo, si sa, salire sul carro del vincitore fa notoriamente comodo).
La fila fuori dall’Alcatraz si appresta a diventare notevolmente più lunga intorno alle quattro del pomeriggio: si osserva gente munita di cartelli, pennarelli, numeri sul dorso delle mani e qualsiasi indizio possa condurre a fandom impazziti, in coda dalle sette di mattina. A vedere tutto questo, i ricordi dell’austera data sold-out al Teatro Regio di Parma nel 2021, incentrata sui brani di “Dogrel” e “A Hero’s Death”, e di quella più sudata e devastante all’Arena Puccini di Bologna nel 2022, per festeggiare “Skinty Fia”, appaiono lontani anni luce e sembrano quasi sbiadire nella mente di chi scrive.
Si registra inaspettatamente grande attesa anche per il nome in apertura, Wunderhorse, progetto di Jacob Slater, alla sua primissima visita italiana. Da affezionata a “Cub” (2022), non sono riuscita a cogliere nel sophomore il reale potenziale che potrebbe esprimere il gruppo, e in vista del live la speranza era riposta in brani che ovviamente non avrebbero mai potuto trovare spazio in una setlist in qualità di supporter (senza farne troppo mistero, il pensiero andava dritto a “Morphine”, “Poppy” e “Aeroplane”). C’è da precisare tuttavia che il quartetto si muove bene in scena, rimanendo nella maggior parte dei casi il più fedele possibile alle sonorità in studio, e le performance vocali di Slater risultano praticamente ineccepibili.
La prova di tutto ciò la consegnano immediatamente i riff di “Midas” e, più avanti nell’esibizione, i sing-along di “Purple”, una delle punte di diamante del set “Teal”, “Arizona”, e l’acclamata chiusura lasciata a “Silver” e “July”. Ad assumere invece più spessore e grinta è “Rain”, che echeggia memorie dei padroni di casa ai tempi di “A Hero’s Death”, mentre il ritornello in crescendo dell’intensa e splendida “Butterflies” trova conferma di qualità dal vivo come su disco. Funziona ovviamente anche la più catchy “Leader Of The Pack”, fornendo qualche bel gioco chitarristico in più.
La venue gremita all’inverosimile è in fermento per l’imminente arrivo del quintetto composto da Grian Chatten, Carlos O'Connell, Conor Deegan III, Conor Curley e Tom Coll, e risponde con un boato alle prime avvisaglie del lento e meditabondo crescendo di “Romance”, apertura dell’ultima omonima fatica sulla quale è focalizzata l’intera data, con esclusioni a dir poco clamorose dalla scaletta: anche se, come ben sappiamo, con un repertorio in crescita, sono inevitabili delle rinunce, appare ormai chiaro che un’ora e trenta di concerto sia veramente molto poco per il gruppo. I malfidenti affermano che la brevità delle esibizioni sia causata dell’impossibilità di Grian di riuscire a reggere ulteriormente con la voce. Questa ipotesi non trova tuttavia conferma, perché l’osannato frontman del quintetto dublinese appare notevolmente migliorato proprio a livello di prestazione vocale. Il motivo potrebbe essere invece molto più ovvio e “umano”, e lo si può intuire sul volto di Carlos, un po’ cupo e decisamente meno incline ai protagonismi di sorta che solitamente lo caratterizzano.
Si entra gradualmente nel vivo con la placida “Jackie Down The Line”, alzando il tiro con il drumming martellante e ossessivo dell’oscura “Televised Mind” e l’intreccio di basso e chitarre sulla vertiginosa “A Lucid Dream”, doppietta estratta dal sophomore. A condurmi quasi alla dannazione fin da subito, oltre alla distesa di cellulari alzati in sé e per sé, sono le videochiamate in corso e soprattutto gli imbarazzantissimi e costanti selfie da parte dei presenti (di tutte le età).
L’evergreen “Roman Holiday” si apre al ripetuto inno “Free Palestine”, continuando con i guitar-riff e i cori entusiastici del pubblico sul ritornello di “Big Shot”, e i sing-along dalla prima all’ultima nota sulla decisa “Death Kink”. Chatten imbraccia una chitarra acustica e la parola passa a Conor Curley su “Sundowner”, ballata che rende al meglio in ottica live, per poi spezzare la quiete con la brevissima raffica esplosiva regalata da “Big” e “A Hero's Death”, e vedere i giri di chitarra di “Here's The Thing” e le strofe orecchiabili di “Bug” riunire l’intero parterre in una sola voce.
Grian suona nuovamente la chitarra sulla malinconica “Horseness Is The Whatness”, traccia che cede il passo all’esecuzione magistrale di una distruttiva “Nabokov”, tra i vertici della performance. Un secondo highlight vede qualcuno fuggire spaventatissimo dal minuscolo “pogo” (la gente si limitava a saltare, ma comprendo l’improvvisa preoccupazione da parte di chi fosse intento a videochiamare la nonna) sollevato dall’immancabile (ma non diciamolo troppo forte, dopo aver visto scomparire perfino “Liberty Bell” dalla scaletta) “Boys In The Better Land”. E per fortuna per i fanatici dei selfie che i pezzi scelti da “Dogrel” fossero soltanto due.
Si torna a più miti consigli con i canti in coro sul pop in zona Cure di “Favourite”, chiusura del set principale, mentre il vero finale è lasciato a un brillante encore con il trittico composto dalla solenne e intensa “In The Modern World”, l’ormai classico intramontabile “I Love You” e l’attacco di panico della claustrofobica “Starburster”.
Per chi ne ha avuto occasione, era il momento di spostarsi all’Arci Bellezza per un dj-set con protagonisti degli inavvicinabili Coll, Curley e O'Connell. Tempo di convenevoli, chiacchiere e autografi? Impossibile con date così serrate e impegnative, senza alcun day off; lo stesso motivo per cui era improbabile aspettarsi più di un’ora e mezza di show. Per il futuro ci si augura che la band punti a equilibrare la qualità dei concerti con la quantità, dato il ricco repertorio a disposizione, e che soprattutto si prenda tutto il tempo necessario per arrivare a un soddisfacente e più completo quinto capitolo, anche se superare il grado di maturità artistica raggiunto con “Skinty Fia” (disco che tra almeno dieci anni forse considereremo un vero e proprio game changer) non sarà una passeggiata di salute. Alla domanda che molti si ponevano e continuano a porsi, ovvero: “Sono ancora loro?”, la risposta è solo una: assolutamente sì. Sono i ragazzi che cercavano e parlavano di una terra migliore, l’hanno trovata, e da quel momento hanno iniziato a sperimentare e a bruciare le tappe tanto velocemente da non rendersi conto di dove sarebbero potuti arrivare. È davvero così orribile assistere all’ascesa di una band alt-rock, fino a raggiungere fette di pubblico che solitamente si crogiolano nella quota mainstream, senza spingersi al di là del proprio naso per pigrizia? In realtà no, è solo molto raro, non ci siamo abituati, e tutto questo potrebbe senz’altro avere anche dei benefici per la scena… Al contempo, nel rovescio della medaglia ci sono i compromessi, non solo per i fan della prima ora, ma anche per la band stessa.
Fontaines Dc
Romance
Jackie Down The Line
Televised Mind
A Lucid Dream
Roman Holiday
Big Shot
Death Kink
Sundowner
Big
A Hero's Death
Here's The Thing
Bug
Horseness Is The Whatness
Nabokov
Boys In The Better Land
Favourite
Encore
In The Modern World
I Love You
Starburster
Wunderhorse
Midas
Rain
Butterflies
Leader Of The Pack
Purple
Teal
Arizona
Silver
July