L'Anfiteatro delle Cascine di Firenze gremito. E non per un concerto “normale”, bensì per “SOS Palestina”, l'evento musicale ideato da Piero Pelù, con l’intero ricavato destinato a Medici Senza Frontiere. Giusto per zittire quelli che ripetono il mantra “gli artisti devono solo cantare, non parlare”. E invece parlano, eccome: commozione, rabbia, testimonianze, insieme a quelle degli ospiti: Riccardo Noury (Amnesty International), Dario Salvetti (ex Gkn) e Anas Khali, che ha raccontato la vicenda di Adnan Bursh, medico palestinese arrestato, deportato e ucciso nell’aprile 2024. Una storia che da sola basta a giustificare una serata intera.
Sul palco, dalle 20 fino a mezzanotte e mezza, si sono alternati Eva Poles, Roy Paci, i Patagarri, Ginevra Di Marco con Francesco Magnelli, gli Zen Circus, i Tre Allegri Ragazzi Morti, Emma Nolde, Bandabardò, Fask, Afterhours e naturalmente Piero Pelù, insieme ad Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo. Un parterre de roi che avrebbe riempito tranquillamente un palasport o un festival, e infatti già c’è la data della seconda parte: 20 giugno 2026. Tutti — artisti, tecnici, organizzatori — hanno lavorato gratis, per dire forte e chiaro che quello che sta accadendo a Gaza è un genocidio e che l’arte non può restare in silenzio. E, nonostante le camionette della polizia schierate fuori a prevenire chissà quale sommossa, dentro l’anfiteatro l’atmosfera era da festa d’altri tempi.
“Stiamo assistendo in diretta a un massacro di civili inermi, di operatori umanitari e giornalisti – ha attaccato Pelù - Per questo ora chiediamo a gran voce pace, pace, pace. Pace in Palestina, Ucraina, Sudan, Congo, Myanmar, Yemen e negli altri 50 paesi del mondo”. Poi è toccato a Roy Paci il compito di aprire le danze, e vere danze sono state, perché “SOS Palestina” non è stato solo happening di riflessione, ma anche una festa. Come ha ricordato Manuel Agnelli: “Non bisogna dare per scontati i concerti, bisogna goderseli”. Invito accolto al volo da un pubblico che non ha risparmiato la voce e l'energia partecipando attivamente alla kermesse.
A scaldare i motori della serata ci hanno pensato prima i Patagarri: fedeli al loro spirito festaiolo, hanno trasformato i primi minuti in un invito collettivo al ballo, rompendo il ghiaccio e spingendo il pubblico a lasciarsi andare. Poi l’ingresso di Ginevra Di Marco, che, con Francesco Magnelli al suo fianco, ha impresso una direzione più intensa e luminosa alla serata: la sua voce ha riempito l’aria con una grazia innaturale, facendo vibrare corde emotive che pochi altri sanno toccare.
Con gli Zen Circus le cose si sono fatte più serie. Tornati dopo la pausa con la formazione a quattro - Appino, Ufo, Karim e il Maestro Pellegrini - sul palco hanno sparato “Catene” e “Viva”, due pezzi secchi, tirati, con testi che arrivano come schiaffi in faccia, senza possibilità di schivare il colpo. Raccontare un live degli Zen è quasi impossibile se non ci sei dentro: se non partecipi alla voglia di urlare parole che conosci a memoria, con quelle risate amare e quell’emozione che ti lasciano addosso. Gli Zen Circus, anche oggi, restano questo: una delle ultime vere band da palco, da scontro frontale col pubblico.
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Anche i Tre Allegri Ragazzi Morti sanno bene come trascinare il pubblico dentro al loro mondo: un teatro mascherato fatto di metafore, rock'n'roll sghembo e musica in levare. Da trent’anni a questa parte non hanno mai smesso di essere quel rito collettivo in cui le maschere non nascondono, ma liberano. Il loro set ha alternato ironia e poesia con la solita leggerezza spiazzante. “Il giorno prima”, “Mai come voi”, “Occhi bassi” e persino una sorprendente versione quasi reggae di “Bella Ciao” hanno scatenato un coro collettivo e generazionale. La loro festa mascherata ha avuto il sapore di un antidoto: semplice, diretto, necessario.
Emma Nolde è ormai un piccolo miracolo della canzone italiana. Ancora giovanissima, ma con una discografia e un’esperienza live che potrebbero appartenere a un’artista con il doppio dei suoi anni, ha dimostrato ancora una volta di saper dominare il palco con naturalezza. Senza pose costruite o atteggiamenti da rockstar, ma mettendo a nudo le proprie fragilità ed essendo semplicemente sé stessa: intensa, vulnerabile, autentica. In scaletta due brani soltanto, “Indipendente” e “Dormi”, ma bastano a lasciare il segno. Due canzoni che hanno attraversato la platea come fendenti emotivi, facendo scendere qualche lacrima sincera tra il pubblico. Un momento intimo, sospeso, in una serata segnata da energia e amplificatori, a ricordare che anche il silenzio e la delicatezza hanno un peso specifico enorme in un live. Se mai ci fosse ancora bisogno di ribadirlo, Emma Nolde non è la “next big thing” del cantautorato italiano: è già oggi una realtà solida e preziosa, una voce capace di raccontare la complessità del presente con una sincerità che arriva dritta al cuore.
La Bandabardò è salita sul palco dimostrando di essere ancora viva e vitale, pur avendo inevitabilmente cambiato pelle dopo la scomparsa, mai troppo compianta, di Erriquez. Per sopperire a quel vuoto incolmabile, la band ha virato verso soluzioni più elettriche, con un tocco alla Mano Negra che rinnova il sound senza snaturarne lo spirito originario: quello di una festa collettiva, anarchica e colorata. La voce di Finaz, carismatica e trascinante, ha guidato un set che si è trasformato subito in un carnevale sonoro. Classici intramontabili come “Vento in faccia”, “Manifesto” e “Beppeanna” hanno fatto esplodere la platea, ribadendo quanto la Bandabardò resti una delle poche formazioni italiane in grado di creare, nel giro di dieci secondi, una festa condivisa, un rito comunitario in cui il confine tra palco e pubblico si annulla.
Poi è toccato ai Fast Animals and Slow Kids. Aimone, tra un pezzo e l’altro, ha trovato il tempo per una battuta che è suonata più come una verità scomoda: “Il mondo sembra andare al contrario, dalla quantità di band che stanno suonando stasera”. Una frase che ha fotografato con precisione chirurgica la condizione della musica italiana: le band sono sempre meno, gli spazi per suonare ancora più ridotti, eppure in una serata come questa ti accorgi di quanto sia un privilegio poter assistere a un concerto corale di questo livello. Dal vivo i FASK hanno scelto di allontanarsi un po’ dalle atmosfere più pop delle ultime produzioni, rimettendo in primo piano la loro natura originaria: quella di una macchina da guerra elettrica, rumorosa, sudata, capace di trascinare anche i più statici tra il pubblico. Le chitarre tornano a graffiare, la sezione ritmica è una frustata continua, e Aimone guida il gruppo con la solita miscela di ironia, sincerità e urgenza fisica. Il set è stato una cavalcata ad alta energia, senza pause, costruito per non lasciare respiro e portare tutti a muoversi, a saltare, a farsi attraversare dal rumore. In chiusura, due brani che hanno assunto un peso nuovo col tempo: “Come reagire” e “Forse non è la felicità”. Se al momento della loro registrazione erano inni generazionali, oggi sembrano ancora più necessari, quasi profetici: canzoni che parlano a un presente disilluso, dove la speranza sembra un atto di resistenza quotidiana. Un finale catartico, che ha ricordato a tutti perché i FASK sono ancora una delle poche band italiane capaci di unire energia pura e parole che pesano.
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Dopo è stata la volta degli Afterhours. Devastanti. Nessuno, ma proprio nessuno, si sarebbe aspettato un’apertura così spiazzante: “War Pigs” dei Black Sabbath. Un manifesto più che una cover, un avvertimento al pubblico: qui non si verrà a cercare rassicurazioni o greatest hits, ma un set duro, concettuale, spigoloso. Dopo quella mazzata iniziale, a cascata sono arrivati “Dea”, “Adrenalina”, “Male di miele”, “La vedova bianca”, “Padania”. Canzoni che non accarezzano, ma graffiano, che parlano di un’Italia nervosa, irrisolta, che negli anni 2000 trovava in Agnelli e compagni il suo specchio più impietoso. Nessun fan service, nessun ammiccamento, nessuna “hit consolatoria”: solo la volontà di suonare come un corpo unico, e di costringere chi ascolta a fare i conti con la parte più oscura e fragile di sé. Manuel Agnelli, in forma strepitosa, ha dominato il palco con la consueta miscela di carisma e ferocia, trascinando il pubblico a pogare come nei Novanta. Le sue sferzate vocali, unite a chitarre e violini che sembravano lame di luce elettrica, hanno avuto ancora una volta il potere di far impallidire band ben più giovani, ricordando a tutti perché gli Afterhours sono stati e restano il gruppo rock alternativo italiano per eccellenza. La formazione di oggi non è quella ipertrofica e “da palazzetto” che avevamo visto negli ultimi anni: è la band del tour per i vent’anni di “Ballate per piccole iene”, con il ritorno di Giorgio Prette alla batteria, Dario Ciffo al violino e Andrea Viti al basso. Un organico più asciutto, più essenziale, che restituisce agli Afterhours la dimensione sanguigna e cattiva delle origini. Meno perfezione tecnica, certo, meno patina, ma un impatto emotivo che arriva più diretto, più viscerale, più “garage”.
Infine, il padrone di casa: Piero Pelù. Sul palco coi suoi Bandidos, ha scaldato la platea con due versioni particolarmente tirate e muscolari di “Io ci sarò” e “Bomba Boomerang”. Brani che, già da soli, bastano a incendiare il pubblico. Ma è quando fanno il loro ingresso Antonio Aiazzi alle tastiere e Gianni Maroccolo al basso che l’atmosfera cambia, diventando quasi solenne. La storia dei Litfiba è sempre stata un continuo gioco di addii e ritorni, di scissioni improvvise e di reunion inattese. Una saga fatta di contrasti e di destini intrecciati, con una costante: la coppia Pelù-Renzulli, voci e chitarre che hanno dato un volto e un suono al marchio Litfiba per decenni. Proprio per questo, la scena ha avuto un sapore quasi surreale: vedere Piero condividere il palco con due dei co-fondatori della band senza la presenza di Ghigo Renzulli è stato sicuramente singolare. Eppure, se si facesse un sondaggio tra i fan storici, la risposta sarebbe probabilmente unanime: nel cuore di molti restano i primi Litfiba, quelli del pastiche irresistibile di new wave, art rock e sonorità mediterranee che aveva reso “Desaparecido”, “17 Re” e “Litfiba 3” dei classici, non solo in Italia ma anche fuori dai nostri confini. Quei dischi avevano l’urgenza della giovinezza, il suono ancora ruvido e visionario di una band che guardava a Londra e Berlino ma restava visceralmente legata a Firenze. Ecco perché, quando le prime note de “Il vento” e “Eroi nel vento” hanno attraversato l’aria, la sensazione è stata quella di un cerchio che si chiudeva. Non era solo nostalgia, ma la consapevolezza di assistere a qualcosa di raro: una formazione quasi completa di quella band che aveva avuto il coraggio – e il merito – di portare il rock italiano in Europa, facendolo sembrare all’altezza dei grandi nomi internazionali. Un brivido collettivo, un frammento di storia viva.
(Foto di Eleonora Chiarugi)