Be-Bop Deluxe

Sunburst Finish

1976 (Harvest)
art rock, glam rock

Tomoyasu Hotei è probabilmente il più celebre chitarrista giapponese. Prima come membro dei Boøwy, la band che stravolse la scena locale durante gli anni Ottanta, poi alla guida dei Complex, che tentarono di proseguirne il discorso, e infine come solista, sempre sulla cresta dell’onda. 
Intervistato su chi siano i suoi colleghi preferiti, ha più volte indicato in Bill Nelson la propria stella polare. Curioso, se si considera che Nelson in Occidente, oggi come oggi, non viene mai citato fra i migliori chitarristi dell’universo pop rock. Eppure una delle menti al vertice della musica giapponese ha pensato al suo stile come al più influente sul proprio operato.
Hotei non è solo nelle sue considerazioni. Altri giganti della musica giapponese, dalla Yellow Magic Orchestra al compositore di colonne sonore Joe Hisaishi, ne hanno richiesto la collaborazione per arricchire i propri album.
Sempre all’infuori dell’impero culturale anglofono, Vyacheslav Butusov dei leggendari Nautilus Pompilius chiamò Nelson nel 1997 per produrre l’album “Yablokitay”. Nelson si ritrovò così alla regia di uno dei dischi russi più venduti dell’epoca, mentre nella nativa Gran Bretagna nessuno all’infuori del ristretto circolo di David Sylvian ricordava più il suo nome. 

Nemo propheta in patria, verrebbe da dire, se non fosse che per qualche tempo, a partire dal 1976, sembrò quasi avercela fatta. Nel febbraio di quell’anno “Sunburst Finish”, il terzo album dei suoi Be-Bop Deluxe, toccava il numero 17 della classifica britannica. L’anno dopo, con il disco dal vivo della band, “Live In The Air Age”, raggiungeva la top 10, così come avrebbe fatto nel 1981 con il suo primo album da solista, “Quit Dreaming And Get On The Beam”. Purtroppo già dal 1984 sarebbe svanita qualsiasi sua traccia dalle classifiche, complici un atteggiamento sempre meno disposto ai compromessi e il gettito inarrestabile delle uscite. Praticamente impossibile tenerne il passo, con periodi in cui ha toccato una media di cinque dischi all’anno.

“Sunburst Finish” rappresenta per Nelson il momento di rottura del ghiaccio. Da tempo diversi addetti ai lavori, primo fra tutti John Peel, indicavano in lui una delle future stelle polari della scena britannica. Il discreto successo del disco, grazie anche all’orecchiabile singolo “Ships In The Night”, sembra preludere a un’ascesa verso i piani alti dell’art rock inglese, in compagnia di Roxy Music, Cockney Rebel e quei pochi altri eletti capaci di iniettare, nella teatralità e nelle orchestrazioni del glam rock, le strutture arzigogolate del rock progressivo.
A completare la formazione, il batterista Simon Fox, il bassista neozelandese Charlie Tumahai e il nuovo arrivato Andy Clark, tastierista virtuoso che rimpolpa in maniera formidabile le trame delle chitarre.
Per assisterlo alla produzione, Nelson chiama John Leckie, giovane ingegnere del suono che non ha mai diretto lavori in prima persona. Sarebbe divenuto di lì a breve uno dei più grandi produttori del rock britannico (fra i suoi tanti clienti Xtc, Magazine, Simple Minds, Felt, Fall, Verve, Ride, Radiohead e Kula Shaker).
Nonostante continui a firmare da solo tutto il materiale, Nelson risente probabilmente del nuovo assetto venutosi a creare intorno a lui, e decide di pubblicare il suo disco più pop fino a quel momento. Le chitarre continuano a fare zigzag all’interno di brani bizzarri pieni di cambi di andamento, ma sono divagazioni che vanno oltre il virtuosismo e si preoccupano spesso di infilare refrain orecchiabili, che non tradiscano la forma canzone. Un compromesso forse, ma del resto la mancanza di limiti è una delle peggiori costrizioni, soprattutto nell’arte.

Il pezzo in apertura, “Fair Exchange”, è un hard rock con strofa in forma di ballata e ritornello accelerato, puntellato da pianoforte e percussioni esotiche, espanso da intermezzi marziali, stacchetti boogie e reggae, assoli di chitarra filtrata e perfino una piccola fanfara di sintetizzatore. Il tutto in meno di cinque minuti. La voce di Nelson ricorda un po’ quella di Steve Harley dei Cockney Rebel, sia per il timbro levigato, sia per l’espressività teatrale. 
Come accennato, la canzone più nota della scaletta è “Ships In The Night”, un irresistibile art rock, con tastiere pulsanti che sembrano anticipare i Buggles e condimento di chitarroni. L’andamento claudicante pesca tanto dal reggae, quanto dal tango, mentre gli assoli sono affidati al pianoforte elettrico di Clark e al sassofono dell’ospite Ian Nelson, fratello minore del frontman.
Il disco prosegue con giochi di specchi e sorprese a getto continuo, ben esemplificati dal contrasto fra la ballata “Crying To The Sky”, attraversata da tastiere liquide e passionali assoli di chitarra, e l’impennata di “Sleep That Burns”, rock spaziale con ritmo marciante, tastiere fantascientifiche, complesse sincopi di batteria, parentesi di tango, e cabaret alla Jaques Brel (via Scott Walker e David Bowie?). 
Gli sbalzi non riguardano solo l’atmosfera, ma anche le strutture: si pensi a “Beauty Secrets” – rock di stampo classico, squisito ma poggiato soltanto su pianoforte, chitarra ritmica acustica e ricami elettrici – e alla successiva “Life In The Air-Age”, che ha un arrangiamento grosso modo simile, ma appare decisamente meno lineare, dati la lunga introduzione strumentale, i continui siparietti della chitarra solista, il finale corale con effetto phaser, e la coda di batteria funk.

I testi rappresentano un po’ l’eccezione della formula sviluppata da Nelson. Non sono affatto aristocratici come quelli di Harley, Bowie o Ferry, sembrano invece discendere dall’ala boogie del glam rock, quella rispondente a Marc Bolan, ma la sfrondano ulteriormente tagliando qualsiasi slang. Mentre intorno succede il finimondo, la voce di Nelson canta rime sentimentali sicuramente gradevoli (in “Like An Old Blues” paragona il termine di una relazione ai vecchi blues caduti nel dimenticatoio), ma talvolta tanto semplici da sfiorare il grado zero della cultura pop (“Ships In The Night” è l’ennesima variazione su quanto il mondo sarebbe insensato senza l’amore). Il risultato è curioso e straniante.
Il brano finale, “Blazing Apostles”, è il più ambizioso da questo punto di vista, prendendosi gioco delle religioni organizzate e in particolare degli evangelisti televisivi, figura particolarmente diffusa nei paesi anglosassoni ("Apostoli ardenti, guardiani di luce, il numero di telefono è sul muro, se hai bisogno di un diavolo da combattere, perché non ci chiami?"). 

I Be-Bop Deluxe non fecero scuola fra i coetanei, dato che il glam stava morendo (nel 1976 anche chi ne era stato alfiere se ne stava allontanando), ma la loro eco avrebbe raggiunto più di una formazione della successiva generazione musicale, quella new wave in particolare (sono evidenti le loro spore nei già citati Buggles, ma anche nei brani più rifiniti dei Magazine e nei primi Japan). Eco che sarebbe poi sforata a est del mondo anglofono, come si diceva all’inizio.
Bill Nelson è attivo ancora oggi e pubblica dischi a uso e consumo del suo zoccolo di fan, ristretto ma fedele, senza aver tuttavia rinnegato il passato. Nel 2011, per esempio, ha pubblicato un Dvd cointestato alla formazione Gentlemen Rocketeers, in cui rileggeva dal vivo il catalogo storico dei Be-Bop Deluxe, con performance impeccabili che lo vedevano ancora in grande spolvero.

14/10/2018

Tracklist

  1. Fair Exchange
  2. Heavenly Homes
  3. Ships In The Night
  4. Crying To The Sky
  5. Sleep That Burns
  6. Beauty Secrets
  7. Life In The Air Age
  8. Like An Old Blues
  9. Crystal Gazing
  10. Blazing Apostles

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