Il torto maggiore che si possa fare a Elliott Smith è quello di provare a definirlo, catalogarlo. Elliott Smith l’artista introverso, Elliott Smith l’antidivo in imbarazzo dinnanzi alla platea degli Oscar, Elliott Smith il cantautore triste che si tolse la vita: tutti sciagurati tentativi di dare immediata e concreta forma a un’arte, la sua, quantomai rarefatta e mistica. Un pugno di vento che sfugge tra le dita. Oggi come allora, in memoria come in vita, Elliott e la sua musica vivono di dicotomie: i suoi testi esondano malinconia, eppure sono poliedrici, vivi, aperti a molteplici letture, con un colpo di coda riaccendono la miccia di una rassegnata speranza. Le sue canzoni fanno scudo di una veste folk minimalista all’apparenza, sotto la quale si agitano una ricchezza e una vivacità armonica rare.
Lo sguardo schivo e il timido portamento non riuscivano a celare i tumultuosi moti dell’animo di questo autore fragile e cinico, romantico e disilluso, che in ogni composizione s’apriva al mondo attraverso un codice poetico tutto suo. Qualcuno provò a dire che tradì il punk, altri lo criticarono quando abbandonò la chitarra acustica in favore di un pop pianistico, senza capire che Elliott Smith era sempre lo stesso e sempre lo stesso sarà, anche oggi che non è più qui, grazie a quello che è il suo testamento, il più prezioso e incantevole che potesse lasciarci: la sua musica.
Nel 1997, ventottenne, Elliott Smith aveva già inciso e pubblicato per l’etichetta indie Kill Rock Stars due dischi solisti, "Roman Candle” (1994) e "Elliott Smith” (1995): due struggenti lettere di nudo dolore, di pizzicata e morbida nevrastenia. A quel tempo, però, la carriera folk di Elliott scorreva parallelamente a quella con gli Heatmiser, punk-band che fondò durante la tarda adolescenza a Portland e con la quale pubblicò tre album. L’ultimo di questi, “Mic City Sons”, uscì nel 1996 e già tradiva un incondizionato amore da parte di Elliott per la musica pop, per la melodia rotonda e sinuosa, lo stesso amore che traspariva sempre più spesso dai suoi lavori solisti. Inutile dire che "Mic City Sons" non conobbe seguito, dal momento che a pochi mesi dalla pubblicazione, Smith decise di lasciare gli Heatmiser per potersi concentrare sulla carriera da cantautore. E nelle medesime sessioni di scrittura per quello che si sarebbe rivelato l’album finale della sua band, a conferma di come la veste di frontman punk gli stesse già da tempo stretta, Elliott iniziò a comporre i brani di quel disco unanimemente considerato come il suo capolavoro, l’imprescindibile e il più iconico in una carriera comunque costellata da opere sempre valide.
Pubblicato nel febbraio del 1997, “Either / Or” non è solo la sua migliore raccolta di canzoni, ma è anche il crocevia della carriera di Elliott, il punto di convergenza tra la sua anima più mesta e quella più audace, tra la sinistra melanconia dei primi due album e le fascinazioni pop che lo innamorarono negli ultimi anni. Registrato in diverse sessioni casalinghe tra Portland e la California, il disco vide la produzione di Tom Rothrock (già al lavoro con Beck e Foo Fighters) e in particolare di Rob Schnapf, che negli anni seguenti divenne fido collaboratore di Elliott, nonché uno dei suoi più cari amici. Lo stesso Schnapf parla oggi dell'album come un lavoro “senza tempo”, un’opera che “unisce meravigliosamente e in maniera sintetica il dolore e la solitudine che ogni persona, in qualunque età, può provare”. Esteticamente, le canzoni fanno leva su scarni e misurati arrangiamenti folk-rock, con fugaci levigature pop a smussarne qua e là le asperità; ma non di certo l’impeto, l’intensità emotiva, il potere evocativo che emerge da queste preziose gemme. Appassionato di filosofia, disciplina che studiò negli anni dell’Università, Elliott diede al suo disco lo stesso nome dell'“Aut-Aut” di Søren Kierkegaard (“Either / Or” in inglese), testo che indaga il rapporto tra vita estetica e vita etica.
People you’ve been before
That you don’t want around anymore
They push, shove and won’t bend to your will
I’ll keep them still
Come ogni album di Elliott Smith, “Either / Or” è un’opera incentrata sulla solitudine. Che fosse conseguenza di una condizione esistenziale o il frutto di un forte sentimento di estraneità verso il mondo circostante, la desolazione era, nella sua voce, cantata con tragica dolcezza, come se tra le pieghe della tristezza si nascondesse un intenso sentimento d'affetto. Seppur mai esplicitamente dirette a un interlocutore preciso, queste canzoni paiono dialogare apertamente con le stesse inquietudini di Elliott, oltre che con le sue stesse dipendenze.
“Le persone che sei stato in passato/ che non vuoi più avere attorno/ che spingono, premono e non si piegheranno al tuo volere/ le terrò calme io”: in “Between The Bars”, la voce narrante - quella di Elliott? Quella dell’alcol? Una voce femminile? - invita ad abbandonarsi, a sciogliere ogni preoccupazione nell’orgia dei sensi. È uno dei classici confessionali di Smith, candidi e ambigui, canzoni che sussurrano amore e speranza sul precipizio di un baratro profondo e nerissimo. Come un equilibrista deriso dagli spettatori, la fragile voce di Elliott procede in bilico sulla sua tenuta emotiva, sfregiata nel cuore e sfiduciata da ciò che la circonda, eppure incorrotta, bellissima anche quando coperta di ferite.
Il trittico di brani iniziale apre il disco nel segno di un indolente pessimismo. “Speed Trials” si muove tra morbidi incroci di acustiche, marciando attraverso presagi di sventure verso il rassegnato refrain, con la sua sdegnosa contemplazione di una realtà e un’umanità immobili: “It’s just a brief simile crossing your face/ Running speed trials standing in place” ("È solo un breve sorriso che ti attraversa il viso/ una prova di velocità stando fermi sul posto"). La successiva è una lenta passeggiata folk-rock per i polverosi sentieri di “Alameda” (quartiere di Portland), che rompe l’ermetismo delle strofe con un perentorio monito: “Nobody broke your heart/ You broke your own/ ‘Cause you can’t finish what you start”. Un trattato di armonia di rara eleganza si conclude in un’osservazione dura e cinica, quasi un severo rimprovero nei confronti di se stesso più che un consiglio per chi si trova all'ascolto. Una rabbia trattenuta, per quanto radicata e intensa, trasuda poi da “Ballad Of Big Nothing”: ancora un dialogo di chitarre folk ad aprire, che prelude a un brano pop dall'esemplare costruzione melodica, culminante nell'ormai celebre ritornello (“You can do what you want to/ whenever you want to/ You can do what you want to/ There's no one to stop you”). Non c’è nessuna autorità al di fuori di noi stessi, ma nel nostro libero e vuoto agire, si nasconde anche la nostra caducità, la nostra prigionia.
La già citata “Between The Bars” rappresenta forse il momento più toccante del disco, un carezzevole e magistrale pop-folk perfetto nella sua progressione melodica, struggente nelle sue sofferte parole. Il respiro sincopato, saltellante, di “Pictures Of Me” sembra esalare da un canzone di insofferenza verso gli occhi indiscreti (“I’m so sick and tired of all these/ pictures of me, totally wrong”), ma lo stesso Smith la descrisse in un’intervista come una riflessione “sulle persone che vedi in Tv e che fanno cose orribili. Chiunque - pure tu - può fare cose buone o cattive”. In “No Name No.5”, la più vicina all’austerità folk degli esordi, emerge palese il tema della solitudine, accompagnato da avvolgenti chiavi acustiche (“Got bitten fingernails and a head full of the past/ And everybody’s gone at last”). La camminata lungo la "Rose Parade” (“un’allegoria valida per qualsiasi parata pomposa, per qualsiasi cerimonia di auto-compiacimento”, disse Elliott della canzone) è sostenuta da accordi caldi e tenui melodie vocali, in contrappunto alla negatività delle liriche, prima che le redini siano raccolte dalle evocative atmosfere alt-country di “Punch & Judy”, ancora attanagliata da un inestirpabile senso di inadeguatezza (“I think I’m gonna make the same mistake twice”).
I can make you satisfied in everything you do
All your 'secret wishes' could right now becoming true
Be forever with my poison arms around you
No one’s gonna fool around with us
So glad to meet you,
Angeles
Una sirena echeggia in lontananza. Le luci della città in dissolvenza, le finestre nella notte, i fari delle auto che sfrecciano sull’asfalto: una crepuscolare e pittoresca dimensione metropolitana fa da sfondo a “Angeles”, rarefatta e arpeggiata elegia sul rischio e sulla tentazione, probabilmente la vetta immaginifica di tutto il canzoniere di Smith. “Cupid’s Tricks” e il suo ritornello nonsense si incuneano in una stordente e cantilenante spirale, quasi un momentaneo attimo di sospensione in vista della straziante conclusione. E infatti arriva silenziosa “2:45 A.M.”, l’esile sussurro nel cuore della notte di chi è perduto, circondato dalle tenebre e ormai preda delle paranoie (“I’m looking for the man that attacked me/ While everybody was laughing at me”).
Quando la redenzione sembra ormai impossibile, fa però capolino una fiammella di ottimismo, come una luce mattutina che lentamente scaccia via il buio della notte. “'Say Yes’ è stata scritta per qualcuno in particolare, una cosa che non mi succede quasi mai. Ero davvero innamorato”. Sulle note di una dolce melodia, in conclusione a un’opera sofferta e difficile, Elliott Smith compone una delle sue più belle e incontaminate canzoni d'amore, trovando la forza di incamminarsi verso la riconciliazione, con sé e con il mondo.
I’m in love with the world
Through the eyes of a girl
Who’s still around the morning after
Protagonista tra i principali dei Novanta alternativi, tuttavia Elliott non si riconobbe mai in alcuna scena. Artista schivo, si lasciò dietro la rovente angoscia del grunge per fuggire verso delicati e placidi lidi acustici; all’etica lo-fi e naïf di certi cantautori indipendenti di quegli anni (vedi Smog e Daniel Johnston), preferì senza vergogna il vivace e pulito melodismo dei Beatles; rifiutò il rumore delle band di quell’epoca, in quanto innamorato perso del power-pop dei Big Star. La sua inclinazione pop prese infine pieno corpo con l’album successivo, “XO", riccamente arrangiato e ben prodotto, per la prima volta pubblicato da una major (DreamWorks Records). Ma le sue canzoni non persero mai un minimo della loro onestà, della loro eleganza armonica, della loro malinconica poesia. Tutti i principali songwriter di ambito indie emersi negli anni successivi, da Bright Eyes a Sufjan Stevens a Iron & Wine, non poterono prescindere dalla sua esperienza.
Dopo “Either / Or”, Elliott Smith fu davvero qualcuno. Refrattario alle luci del successo, divenne in breve un musicista apprezzato su scala mondiale e il suo nome finì sulla bocca di molti; e la sua musica, sfuggente alle definizioni, iniziò a significare qualcosa di concreto per tante persone. Gus Van Sant rimase stregato dalla sua bravura, tanto che gli commissionò un inedito (“Miss Misery”) per quello che fu uno dei più clamorosi successi hollywoodiani di quella stagione (“Good Will Hunting”). Un Elliott Smith in smoking bianco e visibilmente imbarazzato sul palco degli Oscar, chiamato a eseguire dal vivo la sua canzone, resta uno dei ricordi più teneri che legano a noi questo outsider dal talento unico.
Il 21 ottobre del 2003, esattamente quindici anni fa, Elliott Smith decise di farla finita con due coltellate al torace. C’è chi disse che fu la fine scontata, date le sue canzoni, c’è chi non volle rassegnarsi all’idea della sua scomparsa e chi ritenne, tutt’ora convinto di ciò, che fu un omicidio a stroncarne l’esistenza. Ma a mettere d’accordo tutte queste voci e anime discordanti, diverse nei minimi dettagli, resta sempre quel timido cantautore dalla voce rotta e dalla chitarra introversa, e il suo sussurro che trapassava il cuore.
21/10/2018