Due ragazzi, Eleanor e Matthew Friedberger, fratelli, provenienti dai sobborghi di Chicago. Inizio anni 2000. Ascoltano vecchie glorie blues, ma ricordano pure a memoria le filastrocche, gli scioglilingua, e inventano sciarade, giochi linguistici, storie fantastiche. E poi sperimentano in garage, Matthew alla tastiera che rimpinza di effetti, Eleanor alla voce, strimpellando la chitarra. Si accorgono di avere un dono: quello di passare oltre. Non più solo giochi da ragazzi di periferia, non più solo passioncine represse. Qualcosa di più, la verace volontà di coniugare il tutto in un microcosmo di fantasia senza più briglie, e di canzoni. Decidono di chiamarsi, appropriatamente, Fiery Furnaces.
Si accorgono di avere anche l'innata operosità di passare dalle parole ai fatti in men che non si dica. Quasi totalmente istintivo, "Gallowsbird's Park" (Rough Trade, 2003), il loro esordio, dopo qualche registrazione breve che compileranno opportunamente più in là (EP, 2005), è esattamente ciò che si aspettavano: un mosaico surreale di melodie, una rivisitazione giocosa del blues, con tanti episodi memorabili. C'è già dentro tutta la loro estetica: il blues bislacco e caotico di Captain Beefheart di "Shiny Beast", quello vitale e viscerale dei Rolling Stones di "Let It Bleed", passando per la grinta intellettuale di Patti Smith di "Radio Ethiopia" e i crescendo psichedelici dei Jefferson Airplane di "Volunteers". Ma sotto sotto non sono ancora contenti, perché i due già sognano di poter far esplodere tutto ciò in qualcosa di quasi monumentale, persino enciclopedico, come le opere rock, come i grandi doppi album, come le tortuose concatenazioni della psichedelia. E, contemporaneamente, suonare pure più contagiosi di prima.
Nuove, velocissime e felicissime sessioni in piena libertà, una storia o un manipolo di storie da incollare insieme a firma di Eleanor, alcuni amici musicisti chiamati a dare una mano. Questa, in buona sostanza, la pasta base di "Blueberry Boat", il titolo del disco che, ad appena un anno dal debutto (pur già ben considerato dalla stampa specializzata), nel 2004 li lancia nell'olimpo del rock contemporaneo. I due diabolici fratelli ora hanno ampliato le strutture a dismisura, lasciandosi alle spalle i brani sintetici di "Gallowsbird", le hanno passate - con cocciutaggine di Matthew, sempre più padrone delle tastiere elettroniche - al setaccio del rock progressivo, le hanno articolate e precisate profondamente sia nell'armonia che nella melodia. Hanno fondato, magari anche inconsapevolmente, un nuovo fantasy-rock per gli anni 2000. Non una banale, per quanto significativa, evoluzione, e nemmeno un cambio di rotta. Qualcosa che va oltre.
E forse è anche di ambizione che bisogna parlare, come dimostrano le cinque mini-suite presenti nell'album, ad affiancare brani di più corto respiro. L'inziale "Quay Cur", la più complessa del lotto, è ammirevole per la sua multiforme miscela di garage, surf-rock sovreccitato, battiti cibernetici e rumori industriali-extraterrestri del lungo incipit, modulazioni improvvise di dinamica e le melodie vocali scolpite con fare sbarazzino da Eleanor. Uno splendido siparietto di note acute e slide lancia una cantata rockabilly in versi liberi. Su tutto svetta il piano, a cui - nel finale - è affidato il compito di condurre una concertazione corale e risolutiva dopo un sing-along fatato per chitarre e suoni rielaborati. La successiva "Straight Street" fa detonare un rockabilly Chuck Berry-iano sfasato e sconnesso, poi trasfigurato da un piano tamburellante e da una chitarra a-là Velvet Underground, e volto infine a un dialogo di strofe e refrain dell'ugola vibrante di Eleanor, con intermezzi di orchestrine clownesche e variazioni fantasiose.
"Chris Michaels", uno dei picchi dell'album, parte invece con un sapiente sprint rock'n'roll di fattura call-and-response (con un'ottima, possente, pimpante parte di basso-batteria), tra le impennate della linea vocale e le scivolate delle chitarre ruggenti, e poi si dà a distorsioni psichedeliche e infine chiudersi con una sorta di languida, ironica ballad per pianoforte.
Più avanti vengono "Mason City" e "Chief Inspector Blancheflower". La prima è una piece piano-driven con altri echi Jefferson Airplane, intermezzi spoken dal tono meditabondo (ma sempre surrealista nell'arrangiamento) e jam chitarristiche da far invidia allo stesso Jorma Kaukonen. La seconda è un collage electro recitato da Matthew, che nel mezzo sfoggia un altro bel uptempo pianistico, in cui le profonde evoluzioni vocali di Eleanor hanno modo di esibirsi con ancor più tensione e partecipazione emotiva, e nel finale sembra smembrare "Tommy" degli Who per farne un frankenstein dadaista.
Il capolavoro Beefheart-iano, la title-track (l'altro apice), deforma la voce di Eleanor, rende aliena la chitarra, sfibra le tastiere, rende il ritmo una stampella (non solo stomp classico). A tre minuti finalmente inizia la filastrocca, memorabile nel suo contrappunto appiccicoso e dissonante allo stesso tempo. Quindi i due fratelli in coro la fanno diventare scontrosa e industriale, fino a una chiusa del piano lirico in libera fantasia, alla reprise finale, e una sarabanda surreale.
Ma i pezzi brevi, quelli che teoricamente si riallacciano al precedente lavoro, sono di nuovo mini-suite rimpinzate di cambi di scena, svarioni, taglia-e-cuci imprevedibili, e, anzi, è proprio in questi casi che il duo trova le intuizioni melodiche più felici. Si prenda il techno-folk di "Spaniolated", con quel suo incedere da "Venus In Furs" ulteriormente dissonata e dissacrata, tra solfeggi sgraziati di organo e chitarre che richiamano quasi l'irriverenza psichedelica dei Godz, e un'epica, istrionica progressione di effetti elettronici. Oppure c'è il garage-rock-vaudeville in cui tastiere e distorsori electro sostituiscono definitivamente le chitarre, di "Birdie Brain", efficace nei suoi effetti luminescenti del synth e nelle volute del piano (Matthew mago imbonitore, Eleanor fatina incantatrice), o ancora il baldanzoso gospel tip-tap di "My Dog Was Lost" a sublimare la progressione trionfale dei musical in valanghe di cacofonie acide. "Turning Round" e "1917" (dopo un girotondo di robot ubriachi) sono due corali, intonati a mo' d'inno commosso da Eleanor, per unisono di organo, tastiere e voce dalla pregnante atmosfera barocca, in bilico tra il brivido electro e la sortita sperimental-cacofonica. La chiusa ("Wolf Notes") è invece affidata a un nuovo tour de force di suoni scoordinati e abrasivi - come se i Pere Ubu più scanzonati si fossero dati al techno-pop - funestato da lamentazioni della chitarra slide e svolazzi impertinenti delle tastiere, ma di nuovo bonificato da un'ennesima sortita di melodia pianistica.
Trattasi, con le dovute (e sacrosante) approssimazioni per eccesso, di uno scalmanato "Twin Infinitives" (Royal Trux) del nuovo pop, di un imprendibile "Pandora's Box" (Jim Steinman), di un "Absolutely Free" (Frank Zappa) genuinamente adolescente. Attento alle concatenazioni progressive, quasi Canterbury-iane nella loro frizzante visionarietà, governato da una regia che usa pianoforte e tastiere per esasperare i toni, impartire il movimento, sorreggere le impalcature, deformare in senso caricaturale, è un trattato imprevedibile e fuggevole di sub-generi mischiati e subito riesposti con ricchezza strumentale e voluttà inventiva, spesso e volentieri incredibile nelle sue eruzioni di scatti fantastici e melodici, melliflui, ironici. Sprizza di mirabolante divertimento e di profonda tenerezza. Non esiste, ad oggi, un disco che si sia avviato per la strada che i Fiery Furnaces qui indicano bene (forse il solo "Illinois" di Sufjan Stevens, almeno nella sua lunga prova d'estro inventivo e orchestrazione multiforme), e che forse ancora non ha un nome, ma esistono ammiratori diretti e indiretti, esiste un genere, l'avant-pop, che qui trae la maggiore linfa. Esistono sensazionali possibilità future. I due fratelli, co-autori di musiche e testi, sono supportati - anche nelle performance live dell'epoca - dalla collaborazione degli amici Toshi Yano (basso e synth) e Andy Knowles (batteria), entrambi musicisti emergenti. Seguito da due altre opere capitali che scompongono e approfondiscono le sue due principali dimensioni: "Rehearsing My Choir" (2005), l'operetta creativa, e "Bitter Tea", il nuovo formato canzone dell'assurdo (2006). Il subconscio e il rimosso postulati Freud sono diventati finalmente divertissment per le nuove generazioni.
16/03/2012